Il veleno per salvare l’onore perduto? Una volta ti sbarazzava del marito...

Il plateale suicidio del generale Praljak è solo l’ultimo cadavere eccellente ucciso dal liquido letale. Eppure nell’antichità l’avvelenamento era la soluzione più comune per liberarsi dei nemici. O di coniugi diventati ingombranti

 Il veleno per salvare l’onore perduto? Una volta ti sbarazzava del marito...

Con la cicuta, come Socrate. Il generale croato Slobodan Praljak condannato per crimini contro l’umanità, ha voluto lavare il suo onore, bevendo in diratta tv una bottiglietta di veleno al momento della sentenza. Morire per dimostrare la propria innocenza o per ribadire una macabra diversità. Il veleno, di serpente come Cleopatra o di boccetta come Goering a Norimberga, ha fatto decine di cadaveri eccellenti nella Storia. E più per eliminare un nemico che per punire se stessi. Caterina di Francia, come Nel nome della Rosa, unse con il solfuro d’argento le pagine del libro che il marito Enrico di Navarra, futuro Enrico IV, sfogliava mettendo il dito in bocca. Per sua sfortuna, e non solo, lo stratagemma non riuscì perché un paggetto lo sfogliò prima del sovrano, morendo tra atroci sofferenze. Le donne del resto hanno sempre amato colpire con il veleno: all’epoca della Roma repubblicana gli avvelenamenti erano talmente tanti che fu necessario varare una legge apposta. A uccidere soprattutto le mogli infedeli che volevano così disfarsi dei mariti. Di qui il detto latino «adultera, ergo venefica».
Cibi e bevande in realtà nei secoli molto hanno aiutato. Nel Rinascimento i vini erano molto speziati e serviti in calici d’argento e non in bicchieri trasparenti. Riconoscerne il gusto e il colore era perciò impossibile. Così come la carne che veniva ricoperta abitualmente di limone e frutti acidi come le arance o insaporita con salse a base di aceto e mostarde piccanti. Quasi sempre non c’era scampo.

Poi, come racconta il libro «Veleni, intrighi e delitti nei secoli» di Francesco Mari e Elisabetta Bertol, nel Rinascimento usava ungere con sali arsenicati un solo lato della lama di un coltello. Così tagliando un frutto era facilissimo offrire la parte venuta a contatto con il veleno e mangiare quella innocua così da liberarsi dai sospetti.
Il massimo però era la cosiddetta «camicia all’italiana». L’assassino mescolava l’arsenico al sapone quindi lo sfregava sulla parte inferiore della camicia della vittima.

Dato che al tempo gli abiti e gli umani si lavavano di rado l’indossare la camicia per giorni e giorni portava la vittima a morire di eritema devastante e ulcere orribili, che venivano poi attribuite alla sifilide.
Nell’antichità l’avvelenamento era quindi la soluzione più comune per liberarsi di avversari politici, nemici per la pelle e mariti di troppo. Avvelenarsi la vita non era un modo di dire…

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