Vi racconto il dio della Dea Atalanta

Antonio Percassi non se la tira da divo, odia la mondanità, eppure è un padreterno che, pur passando inosservato, domina la scena da dietro le quinte

Vi racconto il dio della Dea Atalanta

Antonio Percassi non se la tira da divo, odia la mondanità, eppure è un padreterno che, pur passando inosservato, domina la scena da dietro le quinte. D'altronde non solo è bergamasco, quindi schivo e addirittura scontroso, ma si por- ta sulle forti spalle l'aggravante di essere nato a Clusone, in Valseriana, aspra come il carattere dei suoi abitanti che parlano un dialetto talmente incomprensibile ai forestieri da non sembrare di ceppo indoeuropeo. L'uomo, grande imprenditore, merita di essere raccontato attraverso le sue mirabili opere.

Figlio di un modesto costruttore di case, Antonio (Tone) mentre studia da geometra con profitto (si diploma in fretta) sfoga la sua passione per il calcio, giocando nei ragazzi dell'Atalanta, da cui una domenica fu prelevato e buttato in prima squadra. Aveva 18 anni. Il suo fu un esordio felice. La partita allo stadio Comunale, ora Azzurri d'Italia, contro il Bari terminò 0 a 0. L'avversario diretto del debuttante non toccò palla e il giovincello di Clusone si spalancò le porte al professionismo.

Nell'ambiente, pur cambiando club, rimase per alcuni anni con alterne fortune. Parliamoci chiaro. Percassi col pallone tra i piedi non era un fenomeno. Se la cavava perché era intelligente e sapeva stare in campo con autorità. Non aveva una tecnica sopraffina, però la grinta e il senso della posizione non gli mancavano di certo. A un dato momento, nel fiore degli anni (26), si ruppe le scatole di sudare marcando attaccanti, si ritirò prematuramente dall'agonismo e si annidò nell'azienda paterna con l'intento di incrementarne gli affari. La iniziale esperienza dietro la scrivania non fu delle migliori. Ma dagli errori si impara a non commetterne. Egli non sbagliò più un colpo. L'attività di famiglia, grazie all'entusiasmo e alla sagacia di Antonio, crebbe a dismisura, diventando un colosso in ambito edile. A missione compiuta, l'ex difensore non si adagiò nella bambagia, bensì si lanciò in altre imprese che ingigantirono l'impero. I migliori marchi di abbigliamento entrarono nel suo recinto commerciale, idem quelli della cosmesi. La famosa Kiko, per citare un caso, si è sviluppata nelle mani di Antonio. Il quale, mai domo, realizzò il supermercato numero uno d'Europa, l'Orio Center. Non si tratta di robetta. Sorvoliamo sulle restaurazioni di immobili, le più corrette e affascinanti di Bergamo e provincia: i palazzi e le ville da lui sistemati sono autentici gioielli e hanno suscitato ammirazione.

Comunque il capolavoro è stato l'Atalanta, di cui si è preso cura alcuni anni orsono, dopo un esperimento precedente finito né bene né male. Da quando al timone della società c'è lui, i trionfi si succedono a ritmo incalzante. E ciò è noto a chiunque segua il calcio. I nerazzurri, pur agendo in provincia, recitano un ruolo importante nel campionato. Le loro prestazioni spesso sono incantevoli. Infatti i risultati che conseguono gli orobici fanno venire i brividi in patria e all'estero. Siamo di fronte a un miracolo. Un vivaio esemplare, che sforna talenti a ripetizione, una gestione manageriale perfetta, bilanci in ragguardevole attivo.

La lungimiranza del Tone lascia a bocca aperta. Mi domando dove e come abbia imparato a stravincere in ambito economico e in quello sportivo. Nel 2017 la Dea ha realizzato un utile di 27 milioni di euro. Si è comprata lo stadio e si accinge a ricostruirlo. E pensare che se conosci Percassi non immagini che sia un portento. Ha l'aspetto e i modi di una persona qualunque. Egli non è uno smargiasso. Poche parole gli escono dalla bocca. Quando abbiamo pranzato insieme, avrà pronunciato sì e no tre frasi secche seppur cordiali. Egli stava in silenzio, ma ascoltava con attenzione le bischerate dei commensali. Chissà cosa pensava, forse di essere al cospetto di quattro imbecilli.

Un giorno, nel 2000, mi convocò nel suo ufficio e mostrò interesse per il giornale che stavo per fondare, «Libero». Mi illusi che intendesse entrare in società con me. Sul più bello fece una rapida marcia indietro. Non si fidava di un pazzo come me, evidentemente. E qui sbagliò, perché il quotidiano si rivelò un buon affare. Peggio per lui e pure per me.

Antonio è una garanzia di durata e non solo di effimero successo. In un'altra circostanza fummo sul punto di collaborare. Desideravamo, lui, Tomaso Trussardi ed io, acquistare un ristorante a Bergamo Alta, la Taverna del Colleoni, ma anche stavolta la trattativa si inceppò. Percassi, pignolo e guardingo, controllò ogni virgola e maturò la convinzione che non fosse il caso di procedere. Sottovoce mi disse: «Lasciamo perdere, non conviene». Di sicuro aveva ragione, ma mi sarebbe piaciuto lavorare con lui, implacabile in tutti i campi e non solo su quello erboso.

Oggi perfino nel calcio è il numero uno.

Il valligiano rustico è troppo bravo. Ha sei figli, tra cui un ex calciatore che ora aiuta il papà. Secondo le statistiche, su sei eredi avere un coglione è fatale. Quelli di Antonio invece sono tutti in riga. Non può essere solo fortuna. (11 maggio 2018)

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