Coronavirus

Viaggio nell'inferno di Madrid. "Sono più i morti che i salvati"

La Spagna in prima linea, le testimonianze choc: "Una signora voleva pagarmi per vedere il corpo del marito"

Viaggio nell'inferno di Madrid. "Sono più i morti che i salvati"

Se l'inferno avesse un luogo terreno visitabile, allora si dividerebbe tra i quattro principali ospedali della capitale di Spagna, dove da dieci giorni, il maledetto Covid-19 produce vittime come un lazzaretto pestifero. Nelle ultime ore i ricoveri sono il 41 per cento in più, i morti il 22, uno ogni 11 minuti, il 60 per cento a Madrid. Mentre entro nel primo nosocomio, sconfitto dall'esplosione dei contagi, il governo annuncia di avere comprato 700 respiratori e quasi mezzo milione di tamponi. In terapia intensiva ci sono 2.125 pazienti. Un terzo di loro non sopravviverà.
15.05: Ospedale Universitario Puerta de Hierro, zona nord-ovest. Hanno precettato gli studenti di Medicina cui manca la tesi. Se sai auscultare i polmoni, sei abile e arruolato. Sulla porta incontro Luciano P., 45 anni, nonno marchigiano, ha gli occhi rossi e umidi, una sigaretta fai da te. Tre ore fa ha portato la moglie Cristina. «Non respirava più. Era da tre giorni con la febbre. Non mi dicono ancora l'esito del tampone». Ai parenti dei ricoverati, gli infermieri chiedono di tornare a casa e aspettare. «Non voglio rivedere quel che resta di lei in un sacchetto di cenere».
La covata malefica del virus ha fatto a pezzi il sistema sanitario della Comunità più popolosa e ricca di Spagna, ha scritto storie strazianti. I parenti allontanati dal pronto soccorso dalle guardie. Entro in punta di piedi, è affollato di veri o falsi contagiati, seduti per terra, su lettini, ciondolanti, attendono il triage. Attraverso quel campo minato dal virus tra inquietanti colpi di tosse. «Li stiamo dividendo in base ai sintomi», dice Begonia, infermiera. «I medici decidono chi mandare su in terapia intensiva. Sono già cinquanta, con soltanto quaranta respiratori. Ciò che fa più male è che moriranno soli».
15.45: l'Ospedale la Paz è vicino al centro. I militari dell'Unità d'emergenza spruzzano etanolo all'ingresso. Medici e infermieri hanno turni infiniti. «Muoiono più di quelli che riusciamo a salvare, ci scaricano gli anziani delle case di riposo, dove il virus ha fatto una carneficina, erano i primi da proteggere. Ora sono pronti per il crematorio», mi dice Antonio, laureato a luglio. Una signora urla «Ramon!Ramon!», si butta per terra, due infermiere l'abbracciano. Il marito, 65 anni, non ce l'ha fatta. Non può vederlo. Regole rigide. Abbraccerà la busta con le sue ceneri. «Scrivetelo mi dice Adriana, laureanda non abbiamo più guanti e mascherine, stiamo finendo le soluzioni per nutrirli, hanno gole devastate dal virus». Ci sono 120 ricoverati, 30 in terapia intensiva. «Dieci di loro sono spacciati». Impotenza e stanchezza riempiono ogni gesto del personale medico. Molti madrileni portano tegami con cibo caldo. «È un modo per dirci grazie».
16.25: l'Ospedale Ramón y Cajal, dista soltanto 800 metri. Con Àlvaro, paramedico, scendo tre piani e siamo alle trenta celle frigorifere. I posti sono esauriti, altri quindici cadaveri restano fuori. «Una signora voleva darmi 500 euro per vedere il corpo del marito».
17.25: Ospedale Gregorio Marañón. La sala d'aspetto è affollatissima, ma ci si siede a distanza di una sedia. Tutti senza un'identità per la mascherina. Si attende l'esito del tampone. «Abbiamo chiesto con Twitter aiuto per flebo e mascherine». La situazione è grottesca. Montagne di scatole di medicinali sono ferme da una settimana in dogana. Non si trovano agenti per i controlli.

«Abbiamo 30 morti nei frigoriferi, a mezzanotte raddoppieranno».

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