Cronache

Viaggio a Nomadelfia, la comunità ultracattolica

Ci troviamo a pochi chilometri da Grosseto, in piena Maremma toscana, tra i paesi di Batignano e Roselle

Foto di Niccolò Battaglino
Foto di Niccolò Battaglino

“Non capisco cosa ci sia di tanto interessante. Siamo una comunità di persone che hanno scelto di accettare una proposta e di condividere gli stessi principi e valori”. A parlare è Sefora, 28 anni, addetta alla comunicazione e all’accoglienza degli ospiti di Nomadelfia, la comunità cattolica che sorge tra le colline maremmane vicino a Grosseto. Abbiamo scelto di venire qui a trascorrere due giorni per capire da vicino come una collettività, fondata su precetti religiosi, si rapporti con quello che sta accadendo nelle grandi città d’Italia in merito allo scontro tra i sostenitori e i detrattori del DDL Cirinnà. Ci troviamo a pochi chilometri da Grosseto, in piena Maremma toscana, tra i paesi di Batignano e Roselle. Per quanto realtà sconosciuta ai più, le indicazioni per la comunità sono presenti fin dalla statale 223. Per entrare a Nomadelfia occorre percorrere una strada sterrata in salita che accompagna fino all’ingresso della comunità, dove ad accoglierci, oltre a una grande croce luminosa, c’è un cartello azzurro con scritto “Benvenuti a Nomadelfia”. Il piazzale è deserto. Le indicazioni segnalano la presenza degli uffici. E’ lì che ci aspettano. Nomadelfia nasce negli Anni ’30 dalla volontà di don Zeno Saltini, un presbitero italiano di Fossoli, che si impegna in prima persona nell’assistenza ai bambini orfani o abbandonati della zona. Una problematica che conosce tempi peggiori al termine della guerra, quando la comunità parrocchiale, chiamata Opera Piccoli Apostoli, si trova a dover offrire riparo anche a chi in guerra aveva perso tutto: famiglia e casa. Nasce così un nuovo tipo di assistenza, differente dai tradizionali orfanotrofi: un sistema familiare allargato, basato sull’apporto delle cosiddette “mamme di vocazione”, vergini pronte a crescere e accudire i bambini rimasti soli. Nel 1947, su indicazione dello stesso prelato, la comunità occupa l’ex campo di concentramento di Fossoli, abbattendo recinzioni e barriere e fondando di fatto una vera e propria città: Nomadelfia (neologismo derivato dai termini greci nomos e adelphia, che significa “Dove la fraternità è legge”). Nel tentativo di creare una società democratica che a quel tempo contava quasi 1200 persone, Nomadelfia incontra l’ostilità delle forze politiche e del governo, che più volte tentano di farla sciogliere. Nel 1952, richiamato dalla Santa Sede, Don Zeno deve lasciare la comunità, che, orfana del fondatore, si rifugia a Grosseto, in una tenuta di diverse centinaia di ettari, donata da Maria Giovanna Albertoni Pirelli.

Un anno più tardi, concessagli la laicizzazione pro gratia da Papa Pio XII, Don Zeno si ricongiunge con i suoi “figli”, con i quali fino al 1981 costruirà quello che oggi è Nomadelfia. A far discutere l’opinione pubblica è sicuramente lo stile di vita che i nomadelfi hanno adottato nel corso del tempo. Sono semplici e basilari i precetti cattolici che segnano la struttura di quella che loro chiamano “la proposta”: tutti i beni sono in comune, non esiste proprietà privata e all’interno della comunità non circola denaro; si lavora solo all’interno delle mura e non si riceve direttamente un compenso; le famiglie sono disponibili ad accogliere figli in affido (ad oggi la comunità ne ha cresciuti più di 5000); cinque famiglie costituiscono un “gruppo familiare”; i bambini frequentano scuole interne autogestite, dando poi gli esami da privatisti al termine del ciclo di studi. A livello giuridico e fiscale la comunità è strutturata in due cooperative: una agricola e una culturale. Tutti i membri della comunità, pur non ricevendo direttamente un compenso, risultano regolarmente assunti. Nonostante la vastità dell’area occupata, Nomadelfia ha una struttura circolare. Si contano 11 gruppi familiari, composti ciascuno da 20/30 persone, distribuiti nelle diverse zone della comunità. La struttura del gruppo familiare è relativamente semplice. Ogni gruppo familiare vive insieme in uno stesso complesso strutturale definito in questo modo: una casa centrale, che offre spazi comuni come la sala da pranzo, la televisione, la cucina, il bagno e la cappella privata, e alcuni alloggi nelle vicinanze, dove i componenti si recano per passare la notte. Ogni 3 anni i gruppi familiari vengono mischiati tra loro secondo il giudizio di una commissione preposta, che dirama le nuove composizioni. “Un giorno di festa in cui Nomadelfia si blocca e tutto ricomincia” racconta ancora Sefora con il suo accento toscano. Ci fanno alloggiare in una delle due foresterie della comunità. A pranzo e a cena saremo ospiti di due diversi gruppi familiari. Per quanto recente bersaglio di critiche mosse dalla stampa, c’è da dire che i componenti della comunità sembrano non prestare troppa attenzione a chi si interessa a loro. L’accesso alla comunità è libero e non è raro veder girare curiosi o visitatori. Ci dicono che la diffidenza nei confronti dei giornalisti sia molto alta. Ecco perché, nonostante qui oggi vivano quasi 300 persone, è difficile incontrare qualcuno per strada durante il giorno. L’attività lavorativa, prettamente agricola, è incentrata sulla coltivazione, sull’allevamento di animali, sulla produzione di vino, formaggi e olio. A margine di tutto questo si sviluppano attività manuali come l’officina, dove vengono messi a disposizione della comunità gli automezzi, la falegnameria, la sartoria, gli ambulatori e tanto altro. Il rapporto con l’impegno lavorativo non è morboso: al mattino un nomadelfo dedica in media 5 ore al lavoro nelle aziende, mentre il pomeriggio le fatiche si spostano verso quelli che vengono chiamati “lavori di massa”, ovvero le faccende di comune utilità. “La sera è il momento in cui ci riuniamo e si sta insieme, preghiamo e mangiamo, poi chi vuole si guarda un po’ di tv”, racconta Nico del gruppo familiare Cenacolo.

Lui, oltre a svolgere i lavori di massa come tutti gli altri, è il responsabile di RTN, Radio Televisione di Nomadelfia. Questa l’intervista che abbiamo realizzato nel tentativo di farci spiegare come funziona l’emittente, accusata più di una volta di censurare buona parte del contenuto proposto dai canali nazionali. A capo della comunità c’è un presidente, eletto ogni quattro anni. Attualmente in carica c’è Francesco, che, come ci racconta nell’intervista che abbiamo realizzato, dopo un trascorso in Seminario, si è trasferito a Nomadelfia nel 1982.

I nomadelfi sono stati più volte bersaglio di critiche per la stampa nazionale. Ovviamente la loro completa devozione a principi cattolici non li aiuta a vedere di buon occhio l’evoluzione sociale verso cui stiamo andando. “La famiglia è formata da una mamma e da un babbo. E’ una questione di natura”, ci dice Paolo, del gruppo familiare Diaccialone. “Adesso leggevo che in Olanda vogliono legalizzare le relazioni tra adulti e bambini. E’ follia. Una volta ci sembrava una follia pensare anche che due uomini o due donne potessero sposarsi e avere figli. Di questo passo non mi stupirei se tra qualche anno cominciassimo a pensare che anche le relazioni tra uomini e animali siano corrette”. L’opinione generale della comunità verso il mondo omosessuale è estremamente dura e decisa. Va contro la natura e va contro Dio. Quando qualcuno prova a tornare sui suoi passi e ad analizzare la cosa da una diversa prospettiva viene tacciato di non essere più completamente lucido. E’ il caso di Beppe, uno dei più anziani della comunità. Non ha una gamba e per questo gira per gli uffici centrali con la sua sedia a rotelle. Ha passato settant’anni dentro Nomadelfia.

Affronta l’argomento da solo, senza che nessuno gli chieda nulla, quasi come sapesse già dove la conversazione sarebbe andata a parare. “Cosa possono dare due mamme o due papà? Un bambino deve crescere con l’amore e la dolcezza della donna e la fermezza dell’uomo. Anche se poi oggi tutto è cambiato e non sembra così necessaria questa distinzione”, ci dice mentre aspetta di fare riabilitazione. Quando veniamo messi a conoscenza del grande numero di minori affidati alla comunità, cerchiamo di capire da loro se anche l’accoglienza di una struttura sociale di questo tipo non rischi di rimettere in discussione il concetto base di famiglia. “Qui i bambini hanno un grosso vantaggio, crescere con l’amore di tutta la comunità”, ci dice Titta mentre fa fare colazione a due bambini che condividono con lei lo stesso gruppo familiare. Un giorno, però, uno di questi numerosi bambini che affollano le scuole e le biblioteche di Nomadelfia potrebbe trovarsi nella situazione di essere in conflitto con la propria sessualità. Ne parliamo con Francesco, il presidente in carica, che ci spiega che il rispetto e l’amore vengono garantiti all’individuo in quanto tale e non in base alle sue scelte o al suo orientamento sessuale. “Una volta c’era un ragazzo che aveva degli atteggiamenti effemminati. Ora non più”, ci dice Sefora, facendoci intuire tra le righe che all’omosessualità si possa porre rimedio con la fede. In questi giorni il DDL Cirinnà sulle unioni civili e sulla stepchild adoption ha incontrato il muro dei canguri di Marcucci e Calderoli e degli emendamenti premissivi, che hanno rischiato di far fare enormi passi indietro alla proposta di legge. Intanto, fuori dalle aule del Parlamento, lo scontro tra le parti cresce.

Quello che è certo è che la legge Cirinnà, qualora fosse approvata, faticherebbe sicuramente a superare alcuni dogmi della nostra società, come la salita sterrata che separa il comune di Roselle da Nomadelfia.

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