Cuba, dittatura anche in libreria

dall’Avana

L’amico scrittore è venuto a prendermi con la sua vecchia Lada e subito mi accorgo di non poter entrare nell’auto perché la mia portiera si apre solo dall’interno. A Cuba la macchine, come le case, sono proprietà dello Stato: è lo Stato che le assegna ai cittadini, mentre le destina gratuitamente a funzionari, intellettuali integrati nel sistema e, soprattutto, le regala a enti culturali e sociali.
BELLA E TRISTE COMPAGNIA
L’amico mi porta a visitare la splendida vecchia Avana e sorride soddisfatto mostrandomi le antiche chiese e i grandiosi palazzi dell’epoca coloniale restaurati dal piano di recupero iniziato alla fine degli anni Cinquanta, sostenuto anche dall’aiuto economico internazionale, che ha già salvato una parte importante (un 30 per cento, mi dicono) del grande patrimonio artistico dell’antica città. Osservo l’elegante architettura della piazza della Cattedrale invasa da turisti che si riposano attorno ai tavoli dei caffè o si allungano sui sedili per prendere il sole dei Caraibi, mentre alcune donne vestite da habanera ci invitano a farci fotografare con loro per poi avere l’immancabile propina (la mancia). L’amico le respinge con sdegno, commentando che ciò è frutto del modello capitalistico, di cui il turismo è la faccia esterna. Forse dimentica che proprio queste fanciulle sorridenti, vestite a festa con grandi ventagli colorati, insieme ai numerosi ristoranti e alla miriade di banchetti e negozi di articoli da regalo, consentono alla vecchia Cuba coloniale di risorgere dall’incuria degli uomini e dal trascorrere del tempo.
Notevole è tuttavia lo sforzo realizzato dal governo nei confronti della sanità, dell’istruzione e, in generale, della cultura: ampi edifici sono stati destinati a scuole, musei, università, enti musicali e associazioni artistiche, ma tutto ciò sempre al riparo di ogni forma di deviazione dal dogma marxista che regola l’intera vita del cittadino cubano. Scrittori e intellettuali ricevono lavoro e benefici solo se in sintonia con l’ideale rivoluzionario; del resto a difendere l’ortodossia culturale è l’ottantenne critico e scrittore Roberto Fernández Retamar, eminenza grigia del dogma letterario comunista, membro del Consiglio di Stato e direttore dell’importante rivista Casa de las Américas. L’intera attività creativa del Paese passa attraverso questa rivista, editrice d’importanti collane letterarie e organizzatrice di un prestigioso premio internazionale: chi non è d’accordo con la linea imposta dalla Casa de las Américas viene emarginato o, se continuano le sue critiche, arrestato e incarcerato. Un professore universitario mi informa che oggi nelle prigioni di Cuba sono rinchiusi 220 dissidenti; una volta al mese le loro mogli, vestite di bianco - le chiamano las damas en blanco - si riuniscono in una chiesa dell’Avana, e poi sfilano con una candela e l’immagine del loro caro sul petto, oggetto a volte di scherno o di insulti da parte di facinorosi.
I SOLITI SOSPETTI
Dalla vecchia Avana prendo la via pedonale dell’Obispo, passo davanti al rosso edificio del Floridita, preferito da Hemingway per le sue sbornie notturne, e poco dopo entro nell’elegante libreria chiamata enfaticamente «La Moderna Poesía»; di fronte c’è un’altra libreria di libri usati che si comprano in pesos cubani. Osservo i volumi esposti sugli scaffali dove campeggiano le opere di Fernández Retamar, il volume della poesia completa di Pablo Armando Fernández, una raccolta dei versi di Waldo Leyda e altri titoli di scrittori cubani e ispanoamericani; ma non mancano autori classici spagnoli e i testi delle navigazioni e delle conquiste, editi in Spagna, mentre un’intera scansia è riservata a Fidel e al Che, i cui ritratti giovanili campeggiano dall’alto delle pareti.
Non ho visto libri italiani; come non sono riuscito a trovare nessun giornale e solo nella hall dell’albergo ho potuto leggere il Granma (nome dello yacht del Líder Máximo esposto nel Museo de la Revolución), organo ufficiale del comitato centrale del Partito comunista cubano. Ecco i due titoli più importanti della prima pagina (datata 26 gennaio): «Mille giovani lavoratori nello sforzo produttivo del fine settimana», «Bolivia ha detto di sì»; ed all’interno: «Fidel nel 1959», con una sua foto giovanile dell’epoca. Superfluo ogni commento.
Il controllo dell’informazione e della cultura riguarda anche il mondo religioso. È impossibile avere dati ufficiali su questo argomento, ma è significativo sapere che, ad esempio, il tragico episodio della morte del missionario spagnolo Eduardo de la Fuente Serrano, ucciso sabato 14 febbraio scorso nelle vicinanze dell’Avana, non è stato comunicato dalla stampa cubana: ancora il silenzio, arma abituale a cui sempre ricorre ogni dittatura. Non abbiamo cifre sul numero dei cattolici praticanti a Cuba, né la Chiesa può fare indagini a riguardo. Le poche volte che le autorità del governo si sono pronunciate in proposito hanno parlato di uno 0,1 per cento della popolazione, evidentemente sottovalutando l’importanza e la consistenza dei cattolici. Di certo sono presenti 13 vescovi con circa 300 sacerdoti, i quali dall’avvento del regime castrista hanno continuato a lottare contro la politica ufficiale del governo fondata sull’ateismo; politica che ha profondamente segnato i programmi dell’educazione e della cultura cubana. Più visibile è invece la partecipazione degli evangelici e dei protestanti di diverse confessioni (battisti, metodisti, avventisti, presbiteriani ecc.), che sono aumentati in questi ultimi anni, come è cresciuta ed è molto attiva la comunità dei testimoni di Geova.
NON IN NOME DI DIO
In effetti, a partire dal ’59, cioè dall’affermazione della dittatura marxista, ogni fede e religione, soprattutto quella cattolica, è stata considerata - come scriveva Marx - «l’oppio dei popoli», il retaggio di un passato dominato dalla paura e dall’ignoranza, un credo contrario ai principi di una società moderna, fondata sui valori affermati dal comunismo. Tale politica ha portato come conseguenza alla chiusura dei collegi religiosi e all’emarginazione dei credenti, ai quali viene di fatto impedito l’accesso ad ogni incarico e professione pubblica. Di fronte a tale situazione, molti cattolici nascosero la loro fede, altri la abbandonarono e, a poco a poco, si trasformarono in atei militanti. Nella sua visita a Cuba (gennaio ’98) Papa Wojtyla non mancò di condannare l’embargo americano ma, soprattutto, espresse le attese del mondo cattolico a favore della libertà religiosa: il pontefice chiedeva a nome di tutti i cubani la libertà di poter professare la propria fede e di partecipare attivamente alla vita e alla trasformazione sociale del Paese. La Chiesa insomma riconosceva e legittimava il potere del governo castrista, ma non rinunciava a denunciare l’assenza della democrazia nelle istituzioni e la costante limitazione delle libertà individuali.


PIOVE GOVERNO GRINGO
Il giovane tassista, che mi accompagna all’aeroporto per il volo di ritorno in Italia mi indica le palme e i bananeti distrutti del tifone venuto dagli Stati Uniti. «Sono sempre i gringos la causa delle nostre disgrazie», dice, ma non sembra molto convinto. Forse aspetta una conferma, una parola che io, mentre lascio L’Avana, non ho il coraggio di dire.

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