La «Cucaracha» era più popolare di «Bella ciao»

Egregio dottor Granzotto, lei ha scritto di aver mandato a memoria, quando era scolaro, le poesie del Pascoli e del Carducci e immagino anche gli altri classici: «Il 5 maggio» del Manzoni, «La pioggia nel pineto» di D’Annunzio, «A Silvia» di Leopardi e via elencando. Lo stesso ho fatto io, qualche volta sbuffando perché quel dato verso si rifiutava di entrarmi in mente, però poi quanto ho ringraziato la scuola, quanto mi hanno tenuto compagnia le poesie mandate a mente! Oggi, invece, lo sa cosa si impara a memoria? «Bella ciao», almeno così ha riportato il nostro Giornale riferendo dell’iniziativa di una maestra di scuola nella provincia di Torino. Con la scusa, per giunta, che «Bella ciao» sarebbe il «canto della libertà» più popolare al mondo. Povera Italia.


Mi auguro, caro Cagliari, che perso per perso ai ragazzi di quella scuola abbiano imposto di imparare a memoria solo la prima strofa di «Bella ciao». Perché il resto sembra stato scritto per ridicolizzare la figura del partigiano che la vulgata pretende maschio, valoroso. Mentre il protagonista del canto della Resistenza si sdilinquisce richiedendo, in caso le cose si fossero messe male, di essere sepolto «sotto l’ombra di un bel fior» così «le genti che passeranno mi diranno che bel fior». Ma guarda tu che strane pretese. In quanto poi alla popolarità, non c’è gara: nessun canto di lotta o di libertà che dir si voglia può reggere al confronto del successo e al planetario consenso della «Cucaracha». Canzone che tratta anch’essa di sepolture, ma con un tono assai più scanzonato che non quello della dozzinale «Bella ciao». La «Cucaracha» era intonata dai seguaci di Pancho Villa e di Massimiliano Zapata nel corso della guerriglia - una vera guerra civile durata dal 1915 al ’17 - al presidente messicano Venustiano Carranza. I cui miliziani, vestendo una divisa scura, erano detti dai ribelli «cucarachas», bacherozzi, scarafaggi. Dice la canzone che gli scarafaggi non ce la facevano nemmeno a camminare perché mancava loro «marijuana que fumar». Ovvio che così ridotti, finivano poi al cimitero «entre cuatro zopilotes y un raton de sacristan», tra quattro avvoltoi e un sorcio per sacrestano.
Cantata e suonata da centinaia di interpreti e di orchestre, la «Cucaracha», diventata un orecchiabile e ballabile «ritmo sudamericano» (andate a dirglielo, ai messicani, che sono sudamericani: v’impallinano) fece presto il giro del mondo lasciando qualche traccia di sé anche nel repertorio marzial-goliardico italiano. Precisamente in un canto oggi tabù, ma di gran voga quando c’era Lui, caro lei. Una strofa dell'aria messicana recita: «Con las barbas de Carranza / voy a hacer una toquilla / pa’ ponersela al sombrero / de su padre Pancho Villa». Cioè: con la barba di Carranza ci farò un pennacchietto da mettere sul sombrero di Pancho Villa. Bene, trascorsi una ventina d’anni dalla rivoluzione messicana, sull’onda dell’entusiasmo per la riconquista di Adua si prese a cantare, nell’Italia fascista del consenso: «E con la barba del Negus / faremo spazzolini / per lucidar le scarpe / a Benito Mussolini».

Inutile stare a chiarire che qui non vige la par condicio: l’uso che s’intendeva fare della barba di Carranza - l’ornamento del cappello di un rivoluzionario del calibro di Pancho Villa - ricade nei canoni del politicamente corretto. Vale l’opposto, invece, per la destinazione dell’onor del mento del Negus. Capirai, spazzola per gli stivali del Duce. Neanche a parlarne.

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