Cultura e Spettacoli

Cultura di sinistra: 2010 di successi

Fantacronaca di una straordinaria stagione letteraria, artistica e cinematografica nel segno del Pd. Dalla riforma dell’Università appoggiata dall’intera intellighenzia alla difesa dei tagli ai teatri e a Cinecittà

Cultura di sinistra: 2010 di successi

Ricco di grandi soddisfazioni e celebrato dentro e fuori i confini nazionali, si chiude un anno straordinario per la cultura italiana. E questo grazie agli interventi di sostegno e all’attenzione costante dell’attuale governo di centrosinistra, capace di marcare in maniera sostanziale la differenza con la politica berlusconiana che lo ha indegnamente preceduto. Nonostante il momento di grave crisi economica, infatti, il Partito democratico - a partire dal presidente del Consiglio, Walter Veltroni, fino ai ministri dell’Istruzione Maria Pia Garavaglia e dei Beni culturali Vincenzo Cerami - ha saputo rispondere alle esigenze improrogabili di quei settori che da sempre in un Paese civile necessitano di maggior tutela: la trasmissione e la valorizzazione del sapere. Proprio i titolari dei due ministeri-chiave, a dispetto dell’opposizione sterile e pretestuosa degli omologhi ministri ombra del centrodestra - l’inconsistente Mariastella Gelmini e l’inadeguato Sandro Bondi - risultano tra i più apprezzati dell’Esecutivo. A conferma di una solida tradizione di supporto alla cultura, in tutte le sue forme, dei partiti progressisti. Del resto, da Antonio Gramsci a Eugenio Scalfari, l’intellighenzia o è di sinistra o non è.
A onore e merito di questo governo, che così efficacemente ha fatto fronte al disastroso lascito materiale e spirituale dell’era Berlusconi, vale la pena ricordare i più importanti risultati ottenuti in ambito culturale nel 2010.
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Ancora abbiamo nelle orecchie la giusta salva di fischi del pubblico scaligero che ha travolto il direttore d’orchestra Daniel Barenboim, il quale impunemente, alla «prima» della Valchiria, di fronte al Capo dello Stato, si è permesso di leggere l’articolo 9 della Costituzione che difende lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica, in segno di protesta per gli inevitabili tagli ai teatri e agli enti lirici decisi dalla Finanziaria. «Se non ci sono soldi, non possiamo farci un cazzo!», è stato il monito che Giorgio Napolitano ha affidato a una nota subito diffusa dal Quirinale. Una riflessione pacata che ha riscosso il plauso di moltissimi politici e intellettuali, i quali non hanno mancato di esprimere solidarietà nei confronti del ministro della Cultura Vincenzo Cerami, impossibilitato a presenziare alla prima della Scala per importanti impegni di governo. Da segnalare, a margine dell’evento, le manifestazioni di saluto ai rappresentanti delle Istituzioni organizzate per tutto il pomeriggio fuori dal Teatro da centinaia di studenti, operai e precari al grido di «È la Scala che ci dà da mangiare!» e, soprattutto, le ragionate stroncature, apparse su tutti i grandi quotidiani il giorno successivo, della direzione di quel pagliaccio di Barenboim. «Che se ne stia a casa sua in Israele a leggersi la Torah, invece che venire a insegnare a noi la nostra Costituzione», ha scritto giustamente sul Fatto quotidiano Marco Travaglio.
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Allo stesso modo, nelle settimane seguenti, l’intera stampa nazionale - ovviamente con la deplorevole eccezione di quelle macchine del fango puzzolenti che sono Libero e il Giornale - è stata concorde nell’accogliere con commenti più che positivi l’approvazione della riforma dell’Università del ministro Garavaglia: la nuova legge - festeggiata nelle piazze di tutt’Italia da allegri cortei di studenti, professori e autonomi - dà finalmente un colpo mortale a parentopoli, limita lo strapotere dei rettori, obbliga gli atenei a non sprecare più le risorse pubbliche e introduce nuovi meccanismi meritocratici tra l’intero corpo docente. Ci si chiede, onestamente, come il centrodestra abbia potuto protestare, se non per puro spirito polemico, contro una riforma del genere, peraltro promossa a pieni voti da commentatori super partes come Francesco Giavazzi e Piero Ostellino. Del resto, perché stupirsi? La destra o è ignorante e fascista o non è.
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Tanto ignorante e fascista, oltre che accecata dall’odio ideologico, da montare un’indegna campagna denigratoria contro l’incolpevole ministro dei Beni culturali Vincenzo Cerami, assurdamente accusato di corresponsabilità nei crolli a Pompei, un’area archeologica notoriamente a rischio, vista la fragilità del patrimonio conservatovi, esposto alle intemperie e al passaggio di milioni di turisti ogni anno. Come hanno ampiamente dimostrato le inchieste di Repubblica, riuscire a limitare il degrado allo sgretolamento di un solo muretto (vecchio di duemila anni e peraltro malamente restaurato), è semmai la prova di un eccellente lavoro della sovrintendenza e dello stesso ministero che, pur nella carenza di risorse, confermano di saper preservare il nostro immenso patrimonio storico-artistico. Come ha autorevolmente commentato l’archeologo Salvatore Settis: «Se a novembre piove sarà mica colpa del governo... E poi, che c’entra la politica? Se al posto di un ministro di sinistra ci fosse stato un ministro di destra, forse che il muretto non cadeva? È la stessa cosa...».
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Che destra e sinistra, dal punto di vista culturale, politico e persino etico, non siano la stessa cosa, lo ha invece brillantemente dimostrato la trasmissione televisiva Vieni via con me che, condotta con raro senso dell’equilibrio e del rispetto per le posizioni altrui, ha evidenziato tutta la distanza che separa i valori della sinistra massimalista di Bersani da quelli della sinistra riformista di Fini. A chi sommessamente chiedeva come mai non è stato dato spazio alla destra, Fabio Fazio ha giustamente risposto che tanto i deficienti le trasmissioni impegnate non le vedono, perché non capiscono nulla. «Loro possono guardarsi La pupa e il secchione, nessuno gli dice niente», ha spiegato pacatamente nell’ultima puntata Roberto Saviano. Da parte del mondo intellettuale della sinistra, l’ennesima dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, di sano buon senso, disinteressato altruismo e partecipato impegno nei confronti del mondo dello spettacolo.
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Lo stesso esemplare atteggiamento che ha contraddistinto, nei giorni del Festival del cinema di Roma dello scorso ottobre, i tanti attori, registi e lavoratori di Cinecittà che hanno sfilato sul red carpet per manifestare la propria solidarietà al governo per gli inevitabili tagli al settore cinematografico decisi dal ministro dell’Economia Pierluigi Bersani. Come si ricorderà, fu lo stesso presidente della giuria, Sergio Castellitto, a leggere il comunicato con le felicitazioni del movimento Cento autori: «Il governo, per destinare nuove risorse ad altri servizi più necessari per le famiglie italiane in crisi, non ha potuto fare a meno di ridurre i soldi del Fondo Unico dello Spettacolo, per altro spazzando via così pericolose forme di assistenzialismo e parassitismo che infestano il nostro settore. Noi - ha dichiarato Castellitto accanto a un Luca Barbareschi visibilmente commosso - siamo qui sul tappeto rosso per fare la nostra parte di sacrifici e comunicarlo a voi che siete il nostro pubblico. Perché il nostro cinema riguarda anche voi». «Purtroppo...», sembra aver commentato, con la consueta volgarità che contraddistingue la destra, un attivista del Popolo della libertà. «Quanno ce vojono, ce vojono», è stato invece l’elegante commento di Massimo Ghini a proposito dei tagli.
E proprio nel settore cinema si riscontrano i maggiori successi, anche di immagine, del nostro Paese in Italia e nel mondo. Nonostante la totale mancanza di riconoscimenti ai film italiani alla 67ª Mostra del cinema di Venezia, un grande atto di orgoglio è stata la decisone resa nota alla chiusura della kermesse dal ministro dei Beni culturali Vincenzo Cerami: «Siccome i finanziamenti sono dello Stato, ben 7 milioni, d’ora in poi intendo intervenire direttamente nella scelta dei membri della giuria. I risultati dell’ultima rassegna veneziana costringono tutti ad aprire gli occhi e a fare autocritica». Unanime il coro di assenso del mondo dello spettacolo: «Il ministro ha fatto bene ad alzare la voce: è ora di finirla con direttori e presidenti che fanno il bello e il cattivo tempo: chi caccia il grano deve poter mettere becco nelle scelte dei giurati, così come il regista decide chi far recitare. E ’sta destra non ci scassasse ’u ca**o», ha commentato a nome dell’intero cinema italiano Carlo Verdone. Anche il direttore artistico Marco Müller ha assentito, nel suo italiano stentato: «Tutto ciò che fa la sinistra è buono, tutto ciò che fa la destra è cattivo». Per il presidente Paolo Baratta, invece, «Venezia è sempre Venezia».
E Cannes è sempre Cannes. Dove l’Italia non manca mai di farsi notare. Anche quest’anno. Dopo essersi speso in prima persona per sponsorizzare il film di Sabina Guzzanti Draquila, purtroppo rivelatosi un pietoso flop, il ministro della Cultura Cerami è stato pubblicamente ringraziato da Elio Germano, che ha dedicato il suo premio all’Italia e agli italiani, «così ben rappresentati dalla loro classe dirigente». Dicono che Vetroni si sia commosso. Anche se non ha visto il film. Di sicuro, come tutti, ha visto e apprezzato però Goodbye mama, il lungometraggio dell’attrice bulgara Dragomira Bonev, già diventata un’opera di culto tra la sinistra cinefila radical-chic per l’impegno con cui ha trattato il problema degli anziani nella società dell’Est europeo, all’interno della più ampia e delicata questione della tutela dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo. Immediata, dopo il suo passaggio al festival di Venezia, la richiesta da parte di molti politici e intellettuali - culminata in una grande raccolta firme lanciata da Repubblica - perché la Rai acquistasse, come poi avvenuto, i diritti del film. Che andrà presto in onda in prima serata, in due puntate, su Raiuno.
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Dal docu-drama alla fiction, dal cinema alla letteratura. Un’attestazione della vitalità della nostra narrativa - come negarlo? - è arrivata dal trionfo ottenuto al premio Strega, a luglio, dal romanzo Canale Mussolini di Antonio Pennacchi, un libro dall’esemplare impegno storico-politico, sostenuto fin da subito dalle migliori firme della grande stampa progressista e dai salotti intellettuali contro quella sciacquetta della Avallone e del suo librettino Acciaio: tutti hanno fortemente creduto nell’autore e nell’opera, dando prova di tolleranza e apertura al «diverso» di fronte all’ingenuo tentativo di sdoganare narrativamente il fascismo.
E questo proprio nei mesi in cui le più brillanti menti del nostro mondo culturale, sollecitate da Vito Mancuso, si interrogavano, con grande coerenza e spirito autocritico, sull’opportunità, per uno scrittore di sinistra, di pubblicare con il gruppo Mondadori, proprietà dell’uomo che ha precipitato il Paese in una vera e propria dittatura economica, politica e sottoculturale. Più di Mussolini? Siamo inclini a pensarlo. Comunque, a recidere una volta per tutte il nodo etico-morale che ha attanagliato per un’intera estate l’intellighenzia nostrana è stato, con la consueta eleganza british, lo scrittore e giornalista Corrado Augias: «Berlusconi mi fa schifo, ma la Mondadori mi paga benissimo. E io dei principi morali me ne spazzo il culo». Affermazione che ha riscosso numerosi applausi, da Zagrebelsky a Odifreddi, da Rampini a Saviano, fino a quel vero eroe borghese di Corrado Stajano, il quale oggi pubblicherà pure per Garzanti, ma intanto riscuote i diritti dei vecchi libri che continuano a uscire per Einaudi. Berlusconi puzzerà, ma pecunia non olet, come si dice a Busto Arsizio.
E per il resto, buon 2011.

Sperando che non cada il governo.

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