Cultura e Spettacoli

"Le carezze di papà Kinski sul mio corpo di bambina"

Pola, primogenita dell'attore folle e maniaco, descrive l'incubo incestuoso di cui fu ostaggio fino alla morte del genitore. "Mi riduceva costantemente al suo volere"

"Le carezze di papà Kinski sul mio corpo di bambina"

Quattordici anni. Tanto sono durati gli abusi sessuali e psicologici di Klaus Kinski sulla figlia maggiore Pola secondo il memoir che l'attrice di teatro e tv, primogenita dell'attore, regista e sceneggiatore fulminato oltre vent'anni fa da un attacco di cuore, ha pubblicato lo scorso inverno in Germania. L'amore di papà (Newton Compton, pagg. 318, euro 9,90), già caso editoriale, arriva dopodomani in libreria. Pola ha solo 5 anni quando il padre la stringe a sé per la prima volta con intenzioni incestuose e da allora comincia un incubo di cui la donna, oggi 60enne, si libera in parte soltanto alla morte del genitore, nel '91. Come si comprende dall'estratto che presentiamo per gentile concessione dell'editore, Kinski acquisisce su di lei un dominio totale, controlla la sua vita come un dittatore: i vestiti che indossa, ciò che compra, mangia, beve, legge, chi le può piacere e chi no. E la immerge in un lusso folle e perpetuo che maschera l'inferno. Accanto a lei a tratti soltanto la piccola Nastassja, figlia della seconda moglie di Kinski, che oggi plaude alla denuncia della sorella. Mentre la madre di Pola dopo il divorzio da Klaus si rifà una famiglia e abbandona la piccola al suo destino, rifiutandole ogni affetto.

Dov'è il babbo? Dov'è mio padre? Forse ha avuto un incidente ed è in ospedale, oppure è morto. Assassinato! Che cosa potrei fare? Prosciugare il suo conto e vivere in questa casa con i miei amici? Per prima cosa farei rimettere una campana nella torre, a una chiesa serve una campana! In realtà, spero che non sia morto. Lo aspetterò qui, non importa quando arriverà. Mi stringo le ginocchia perché sto ancora congelando.
«Mia adorata bambolina, perdonami! Perché non sei a letto? Qui fa fin troppo freddo per te», sento ronzare una voce. Devo essermi addormentata sulle scale. Non sono mai stata così contenta di veder comparire mio padre, gli circondo le gambe con le mie braccia e non vorrei lasciarlo andare mai più. Lui ridacchia imbarazzato, mi tira su e mi bacia con le sue labbra umide. Nel giro di un istante non sono più così felice della sua presenza e mi volto di lato. Ma lui non si fa distrarre. Mi stringe a sé e saliamo insieme su per la scala, gradino dopo gradino, fino alla torre e alla sua camera da letto. Lui fruga nella giacca e fa apparire un piccolo pacchetto rosa. «Per te, angelo mio!», mormora. Tiro il nastro, si scioglie facilmente, e apro il coperchio del piccolo cubo rivestito di seta. All'interno, su un cuscino di satin bianco, c'è un orologio da polso. «È un Cartier! Loro fanno gli orologi più costosi del mondo!», si vanta mio padre. Il gioiello è senza dubbio splendido, ma io odio gli orologi. Naturalmente lo ringrazio e non gli lascio intuire che non so cosa farmene. Poi mio padre passa alla parte penosa della vicenda, mi prende la scatola dalle mani, muove la sua lingua nel mio orecchio e comincia a spogliarmi. Nel frattempo, io rifletto se conosco qualcuno a Monaco a cui vendere l'orologio. Mentre mio padre sfoga le sue fantasie su di me, io cado in un pozzo e mi lascio precipitare nell'abisso senza fondo. Intorno a me si fa buio e non sento più nulla. Mi difendo soltanto se lui diventa troppo violento, allora lo illudo: «La prossima volta, davvero!». So bene che sto mentendo. Il giorno successivo lo trascorriamo a Roma nel solito turbinio da una boutique all'altra. Nella gioielleria Bulgari lui parlotta con un uomo che gli striscia continuamente intorno. Subito dopo, sul sedile posteriore della Rolls-Royce compare un pacchetto rosso. Il sole si fa rossiccio, su in alto si vede già una pallida falce lunare. Il viaggio di ritorno attraverso la città è meraviglioso. Piazze con fontane, caffè su strada, gente vestita leggera che ride e si bacia. E io sono rinchiusa in questa macchina e in questa casa! L'auto svolta all'entrata. Il cancello di ferro scatta, la gabbia è di nuovo chiusa.
Mio padre si fa il bagno, rimane a lungo davanti allo specchio e si prova diversi pantaloni, camicie e giacche. Getta i capi scartati sul pavimento, se ne occuperà il personale. Il mucchio cresce a vista d'occhio. Lui sembra assente. Probabilmente stasera mi lascerà di nuovo da sola. Non lo sopporto più, devo uscire di qui! Come posso fargli capire che vorrei stare un po' in compagnia? Sono giovane, voglio vivere, voglio uscire in città, ridere con quei ragazzi e quelle ragazze, ballare, divertirmi. E invece vengo reclusa in una chiesa da un vecchio. Devo aspettarlo finché non torna a casa a sfogare su di me la sua libidine. Mio padre sussurra: «Ciao, angelo mio, devo uscire di nuovo per un po'!». Preme le sue labbra umide sulle mie, si mette in testa un panama e sparisce. Quando sento il motore ululare, piombo sul primo gabinetto che trovo e vomito. Ma non basta. Mi infilo un dito in gola, poi due, poi tutta la mano, finché nel gabinetto non si vede altro che del liquido giallo e mi vengono le vertigini. Barcollo davanti allo specchio. Nel riflesso vedo un'estranea: sguardo vuoto, occhi acquosi, il viso gonfio. Mi allontano, mi accascio sul letto e piango, singhiozzo, grido. Tanto è uguale, qui non mi sente nessuno. A Monaco sono sempre di troppo, indesiderata, fastidiosa. Mio padre invece mi vuole, mi desidera, lotta per avermi, mi dimostra quanto ha bisogno di me, quanto è bello che io ci sia. E mi riduce costantemente al suo volere. (...)
Di sicuro è già tardi, ma non voglio andare a letto. In città non si percepisce neanche un segno di vita. Nemmeno il frinire dei grilli. A volte si sente il verso di un gufo. È bianco e piccolo quanto una pera, ma oggi non c'è neanche lui. Poi un tuono lacera il silenzio. Le mura tremano, il pavimento vibra. Che cos'è? Un terremoto? La terra che sprofonda? Ti prego babbo, torna! Mi stendo sulla pietra e mi copro il viso con le braccia. Un intruso! Uno spirito! Non riesco nemmeno a piangere, ho solo paura.
Mio padre mi trova così, non l'ho sentito arrivare. Mi chiede sbigottito che cosa sia successo, io balbetto frasi incoerenti. Mi porta in casa, mi fa sedere sul tavolo di marmo, mi accarezza la testa e mi bacia sulla fronte. Cerca di tranquillizzarmi e mi porta un bicchiere d'acqua. Lo bevo avidamente. Sto battendo i denti e il mio corpo è scosso da un tremito. Non ho il controllo di me stessa. Mio padre mi abbraccia dolcemente, continua ad accarezzarmi i capelli, vuole farmi vedere che con lui sono al sicuro. «Tutto bene! Va tutto bene!».

Le sue mani mi accarezzano sulle spalle, sul seno, e mentre lo fanno lui mi stende sul piano del tavolo e mi toglie le mutandine, le fa scivolare così in basso che non posso più muovere le gambe.

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