«AMERICA»

Nel salotto dell'arte minimalista, quella Villa Panza a Varese che ha ospitato per anni la collezione del Conte di Biumo, approda la fotografia di Wim Wenders per una mostra che tocca le corde dell'emozione e del mito in un luogo tanto bello quanto asettico. America , questo il titolo che unisce una quarantina di scatti del regista tedesco sarà aperta fino al 29 marzo: ottima occasione per conoscere un aspetto parallelo nella poetica dell'autore di tanti capolavori - Nel corso del tempo , Paris, Texas , Il cielo sopra Berlino , Così lontan o, così vicino e il mio preferito Hammett .

Per Wenders fare fotografie non significa misurarsi con un'arte propedeutica al cinema, ma compiere una vera e propria indagine poetica in un linguaggio manipolato con altrettanta sapienza e intensità. Se il cinema è lo spazio e il tempo della collettività, del lavoro di gruppo, del caos incontrollato, la fotografia equivale alla solitudine, al silenzio, a un intimo rapporto con se stesso. Per questo Wenders è un convinto assertore dell'analogico versus digitale che non rifiuta a priori ma che ritiene inadatto a rappresentare le proprie emozioni. «Sarò probabilmente l'ultimo fotografo che preferisce perdere tempo a mettere e rimettere la pellicola per l'intera giornata (la mia macchina fotografica panoramica ha solo quattro esposizioni!) anziché passare a un dispositivo che mi costringerebbe a confrontarmi, anche in maniera accidentale, con un risultato, cosa che ovviamente faccio quando scatto delle istantanee con il mio iPhone».

Una volta Wenders disse «il rock mi ha salvato la vita». Questa frase ha segnato l'approccio alla cultura del mito americano condivisa peraltro con tutti quelli della sua generazione (è nato nel 1945, sta dunque per compiere settant'anni) che hanno attraversato l'età dell'oro dei cambiamenti e il sogno di inseguire l'utopia. Ecco allora che il suo sguardo europeo si posa sul paesaggio americano in quanto luogo dove ha avuto origine la cultura di un ragazzo come tanti, in un itinerario che parte dalla fine degli anni '70 con alcuni scatti in bianco e nero, come un Road Movie attraversa infinite distese di vuoto e approda, nel 2001 a Ground Zero.

Se quest'episodio suggella l'atto finale di un percorso che dalle rovine e dalle macerie si sforza di rinascere, l'America più autentica di Wenders è quella hopperiana, intendendo però sdoppiare l'omaggio sia a Edward, il pittore del realismo solitario, sia a Dennis, attore e fotografo, grande amico del regista che lo diresse ne L'amico americano tratto dal romanzo di Patricia Highsmith, cui la mostra è dedicata. Ad esempio Night Hawks Setting (1997) è una citazione quasi letterale del celebre dipinto del maestro di Nyack, per non parlare di Woman in the Window (1999), in cui la memoria del passato si sovrappone all'insorgere del presente, fatto di grattacieli che si stagliano sullo Skyline di Los Angeles.

Ciò che mira dritto al cuore è il paesaggio più desolato in cui lo sguardo si perde in orizzonti infiniti. Un muro sbrecciato, un gigantesco albero, il deserto attorno a Santa Fè, un cartello stradale nel nulla che indica il Western World Development, la stazione dei bus ad Odessa City in Texas e un drive in accanto al cimitero.

Ci aggiriamo in silenzio tra queste immagini che ci rimandano al senso del viaggio tante volte descritte negli episodi migliori del suo cinema e, per un effetto della memoria, alle fotografie si sovrappongono i volti di Harry Dean Stanton e le note della chitarra di Ry Cooder che firmò l'indimenticata colonna di Paris, Texas . E scegliamo un altro paio di capolavori, Wyeth Landscape, Montana (2000), omaggio a un altro grande pittore della tradizione realista americana e alla sua resistenza orgogliosa alle avanguardie. Oppure Street front in Butte, Montana (2000), visione in cinemascope in cui domina il rosso dei mattoni a vista e da dove scompare del tutto la presenza umana.

«Scatto la foto là dove posso percepire la storia del luogo nel modo migliore -dice Wenders nell'intervista a Francesco Zanot pubblicata in catalogo (Silvana Editore)- ed è dentro quel luogo che voglio portare l'osservatore».

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