Letteratura ossia quei libri che ti consentono di vivere altre vite oltre a quella che ti è data in sorte. Magari vite bellissime al di fuori della portata spazio-temporale del lettore. O magari vite meno belle, anzi piuttosto problematiche, e però interessanti e meritevoli di essere conosciute. Quest'ultimo è il caso di Muro di casse , il nuovo libro di Vanni Santoni uscito nella nuova collana Laterza, Solaris, che favorisce la miscela di romanzo e saggistica. Il cocktail poteva riuscire meglio perché il testo è appesantito dalla zavorra intellettuale: la prefazione con spiegone, le note a piè di pagina, le appendici, la bibliografia, i soliti ringraziamenti, davvero troppa roba. A che scopo tirare in ballo Walter Siti e una sfilza di etnomusicologi francesi, accademici inglesi e situazionisti americani? Lo sappiamo (io lo so, lo conosco) che Santoni è un ragazzo istruito, però non si scrivono i libri per far bella figura con gli amici. Nondimeno chi si arma di machete per superare la giungla del paratesto verrà premiato, si ritroverà in una sorta di Paese dei Balocchi che sebbene molto più rumoroso non è molto meno toscano di quello inventato da Collodi.
Il collegamento non deve stupire troppo: l'autore è nato a Montevarchi, Valdarno superiore, e vive a Firenze, città a cui ha dedicato il suo libro più bello il cui titolo cita Cecco Angiolieri, a riprova di una consuetudine con la tradizione regionale, non solo con l'intellettualismo internazionale. Alcune feste di Muro di casse si svolgono ad Altopascio, alla Fortezza da Basso e sul Pratomagno, un protagonista si chiama Jacopo e spuntano numerosi toscanismi: «loia» per sporco, «gavorchio» per ragazza brutta, «billo» per quello che avrete capito. Le pagine 89 e 90 sembrano il capitolo XXXI di Pinocchio , laddove il burattino e Lucignolo salgono con l'Omino di burro, solo che al posto del carro trainato da «dodici pariglie di ciuchini» arriva un camion inglese pieno di amplificatori per inondare di musica tekno addirittura la Bosnia.
Ecco, Santoni vuole raccontare agli ignari il mondo dei festival tekno detti inizialmente rave party e poi teknival, «un qualcosa che ha avuto luogo in Europa tra il 1989 e oggi» coinvolgendo nel tempo centinaia di migliaia di giovani che si sono trovati «a ballare fino al mattino, e sovente fino a quello ancora successivo, in quelle industrie abbandonate, in quei capannoni, in quei boschi, in quelle ex basi militari, fiere del tessile, ballatoi, vetrerie, depositi ferroviari, rifugi montani, bunker, uffici smessi, pratoni, centrali elettriche, campi, cave, rovine di cascinali». E ci riesce bene. I viaggi su «furgoni Westfalia pieni di spostati a cucinare ketamina in padella», i bivacchi felicemente e toscanamente definiti «sudiciumai», le innumerevoli droghe sia naturali che sintetiche (ma soprattutto sintetiche come appunto la ketamina), le cene coi fagioli scaldati nella latta sono descritti in modo così efficace che alla fine del libro ho ringraziato il Cielo per avermi risparmiato l'esperienza diretta. Mi sono salvato il fegato e pure le orecchie: grazie a YouTube ho assaggiato il genere diffuso dal muro di casse, il bastione di amplificatori che dà titolo al libro e orientamento a chi balla, e ne sono rimasto orripilato.
Badate che non sono un fanatico di Boccherini, anzi, io ascolto molta musica elettronica e quindi non sono mosso da pregiudizio passatista quando dico che la tekno è la musica più meccanica, impersonale, ripetitiva mai entrata nel mio padiglione auricolare. Suoni per automi, per epilettici, per zombie, nella migliore delle ipotesi per cercatori di trance.
Ritengo impossibile che una persona sobria possa sottoporsi volontariamente a un simile bombardamento acustico. Lo ammette una protagonista: «Sai chi mi sta sulle palle? Quelli che “ci si può godere una festa anche senza droghe”. Sarebbe come dire che è bello farsi l'Oktoberfest senza birra». Nonostante i vari elementi dionisiaci, i teknival non finiscono in orgia. A leggere Santoni pare che il popolo tekno sia più casto del popolo dei raduni cattolici e forse ho trovato la spiegazione: se sei pieno fino alla punta dei capelli di LSD, MDMA, oppio andaluso, ganja olandese, ketch indiana, speed, non hai voglia di fare l'amore, hai voglia di vomitare.
Com'è possibile che un fenomeno così disadorno abbia avuto tanto (sia pure semisotterraneo) successo? Una risposta la fornisce proprio
Collodi quando descrive il Paese dei Balocchi: «Lì non vi sono scuole: lì non vi sono maestri: lì non vi sono libri. In quel paese benedetto non si studia mai». La strada verso la regressione animale è sempre la più trafficata.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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