«Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce col tempo a un risolino di stupore, stupore di essercela tanto presa per così poco, e anch'io ho creduto fatale quanto poi si è rivelato letale solo per la noia che mi viene a pensarci. A pezzi o interi non si continua a vivere ugualmente scissi? E le angosce di un tempo ci appaiono come mondi talmente lontani da noi, oggi, che ci sembra inverosimile aver potuto abitarli in passato».
È il celebre incipit di un romanzo meraviglioso, Seminario sulla gioventù di Aldo Busi. Quando uscì, nel 1984, nessuno poteva sapere che sarebbe stato il primo di una serie di romanzi (e libri di viaggio) meravigliosi. Insieme toccanti e brutali, anticonformisti per natura e non per programma, efficaci nel ritrarre il Paese perché non ne avevano l'intento. Erano storie personali capaci di essere universali. Che fossero personali si capiva dal linguaggio in cui un lombardo nato a pochi chilometri da casa Busi riconosceva cadenze ed espressioni famigliari. In quelle storie c'era il profondo nord, Milano ma soprattutto la provincia, la Bassa e il Garda. Che fossero universali, si capiva dal linguaggio in cui un lombardo nato a pochi chilometri da casa Busi, ma anche un calabrese nato a centinaia di chilometri da Montichiari, riconosceva la grande letteratura, i classici di lingua tedesca e inglese, Goethe e Sterne.
In questi giorni Busi ha pubblicato un nuovo romanzo, dopo un lungo silenzio, El especialista de Barcelona (Dalai editore). Una storia c'è ma non importa: questa non è la recensione di un libro, articolo che spetta al critico e dunque non a me. Quello che colpisce il giornalista, qui come nei racconti di Aaa! (Bompiani 2010), è l'invadenza delle pagine trasudanti «vibrante» indignazione da editorialista. Dal Papa alla Lega, passando per destra e sinistra, ce n'è per tutti. Busi scrive di aver sempre seguito intuizioni civili e poetiche che sono intuizioni politiche tout court. Se lo dice lui, bisogna credergli ma francamente, lo dico da appassionato lettore della prima ora, non mi è mai sembrato che la politica in senso stretto fosse centrale nei suoi libri. Certo, erano anche politici: come ogni opera che riflette la sua epoca senza appiattirsi sul pensiero dominante.
Qualcosa è cambiato. Un tempo Busi era un scrittore senza aggettivi, oggi è uno «scrittore civile». Così l'ha presentato giovedì sera Michele Santoro a Servizio pubblico. La metamorfosi si è consumata in questi giorni davanti alle telecamere dei talk show politici, prima In onda, poi Otto e mezzo, infine Servizio pubblico (a proposito, c'è forse una legge che obbliga La7 a ospitare Busi in tutti i programmi?). L'opinione di un grande scrittore è più interessante di quella di chiunque altro? No, se parla di politica e non di letteratura; come dimostrano gli interventi di Busi sul clericalismo da estirpare, l'eterno fascismo italiano, il «pus» della corruzione, l'evasione fiscale, l'onestà etc. etc. Un repertorio di opinioni da rispettare sempre, da condividere talvolta, comunque tale da non lasciare mai il segno perché identico a quello che tutti snoccioliamo nelle conversazioni al bar.
Eppure noi fan dell'Aldissimo, come lo chiama Roberto D'Agostino, ricordiamo le sue geniali incursioni televisive nei salotti perbenisti della Babele di Corrado Augias. Ricordiamo anche le meno dirompenti ma intelligenti lezioni ad Amici di Maria De Filippi. Perfino il casino piantato all'allibita Simona Ventura nel corso dell'Isola dei famosi c'era piaciuto perché smascherava la logica ingannevole del reality (puoi essere reale ma solo fino a un certo punto). Ora lo scrittore civile partecipa compunto ai dibattiti di Servizio pubblico.
Questa omologazione rivela il posto occupato in Italia dalla cultura, sempre costretta a parlare d'altro, cioè di politica, per farsi ascoltare e strappare cinque secondi di pubblicità del volume di turno. Un tempo Pasolini diceva di sapere, non si sa esattamente cosa e senza produrre prove. Oggi un magistrato presenzialista (dovrebbe essere un ossimoro, invece...) come Antonio Ingroia, sulle tracce del poeta, pubblica un libro sulla trattativa Stato-mafia in cui dice: Io so (Chiarelettere).
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