C’è una nuova specie che s’aggira in libreria: l’autore "mammone"

Le memorie di Gramellini, Insinna e Millefoglie in realtà riscoprono valori positivi e dimenticati

C’è una nuova specie che s’aggira in libreria: l’autore "mammone"

A vederli tutti insieme, i libri in ricordo di madri e padri scomparsi o che tornano sui passi dell’infanzia, destano qualche fastidio. Dico Fai bei sogni di Massimo Gramellini, Neanche con un morso all’orecchio di Flavio Insinna, L’attimo in cui siamo felici di Valerio Millefoglie che parlano dei loro genitori perduti e altri che aprono la cassaforte dei ricordi domestici, la magia del passato perduto, l’amore per un padre, per una madre, l’incantesimo dell’infanzia. Facile accusarli di esibizionismo dei sentimenti più intimi, di narcisismo dolente-affettivo, perfino di sfruttamento dei propri affetti più cari a fini commerciali, e considerarli quasi imprenditori del loro stesso dolore. Ma cos’è questa “lutteratura”, questo genere letterario fondato sul proprio lutto, questa orfanità professionale?
Poi li incontri uno ad uno questi libri e cambi giudizio o pregiudizio. Si tratta di libri diseguali, ma di storie sincere, dolorose e vere, intensamente vissute e raccontate con delicatezza. A essi si aggiungono quei libri che rovistano con nostalgia nell’immensa credenza dei ricordi, soprattutto domestici: da La casa sopra i portici di Carlo Verdone al Dizionario delle cose perdute di Francesco Guccini, solo per citarne un paio. Non sono un critico letterario e non dico nulla sulla qualità dei testi ma su quel che esprimono. Qualche anno fa di fronte all’esibizionismo erotico della tv e dei media, al coming out delle inclinazioni sessuali e della sfera privata, auspicai spudorati outing dei sentimenti più autentici, legati alle persone più care e agli eventi più significativi e anche più dolorosi della nostra vita. Perché quelli sono considerati la nuova oscenità da nascondere o di cui vergognarsi. Oltre a teorizzarlo lo praticai, raccontando in più pagine o articoli la vita, la vecchiaia e la morte di mia madre e di mio padre, mettendo a nudo il cuore, sottraendo la morte alla rimozione pubblica e al divieto di parlarne per «buon gusto» e obbligo sociale di allegria. Ero e sono convinto che parlando di quanto c’è di più intimo e più personale, riesci a esprimere quel che c’è di più vero e di più universale, che tocca ciascuno. Ebbi confortanti conferme, tanti mi scrissero, mi telefonarono, me lo dissero a voce, confessarono i loro affetti e i loro rimossi dolori, si lasciarono sfuggire tenerezze e ricordi d’infanzia tenuti per decenni sotto chiave. Si costituì un’invisibile comunità d’amore, fondata sul delicato esercizio della nostalgia.
Ora vedo il successo di questi libri, in particolare il gran successo del libro di Gramellini e, al di là dei fazienderi televisivi e dei generosi sponsor ad altri negati, sono contento. Molto meglio dei codici da vinci, degli harry potter e menate varie, anche nostrane. Perché quel successo denota un desiderio di verità e di sentirsela raccontare come una favola prima di addormentarsi, ma per svegliarsi poi alla vita autentica; una voglia di confrontarsi con i momenti più alti e anche più drammatici della vita, quando non ci sono alibi e diversivi ma devi guardare diritto in faccia l’esistenza. È bello trovare in quei momenti compagni d’anima e di strada, che siano autori o lettori. Certo, questa diffusa tendenza all’amarcord tenero e dolente tradisce un amore inconfessato per le cose più disprezzate e vilipese nel tempo corrente: la paternità, la maternità, la famiglia, i suoi legami. Magari non crediamo più alla famiglia, e non siamo più capaci di costruirne salde, numerose e vive. Ma poi quando dobbiamo uscire dalla banalità del giorno, dalle ipocrisie del vivere, dalle feroci e fittizie competizioni quotidiane, allora l’unica strada vera porta a casa, alla tua casa d’origine; quella che ti resta dentro, quella animata da tuo padre, da tua madre, dai tuoi fratelli, da te bambino, dalle delizie e le croci del passato. La famiglia resta il punto fermo; ma la famiglia d’origine, quella antica, tradizionale e ormai finita; e non quella in corso, mutevole e sbarazzina. Dopo un’epoca parricida, torna in versione minimale l’ombra paterna del babbismo. Non sbrigate questa inclinazione narrativa come intimismo o neo-mammismo privato e nazionale, come romanticismo a conduzione familiare, un rigurgito di fanciullismo pascoliano (Nottetempo ha ristampato in questi giorni Il fanciullino di Pascoli); o peggio, come un tempo dicevano gli austeri guardiani del realismo socialista, uno scivolamento nell’estetismo decadente e borghese, nel sentimentalismo domestico, perbenista e reazionario. Ma quel filone emergente non è maniera, anche se può diventarlo, e non è nemmeno una furbizia commerciale, fiorita perché redditizia nella sua sfacciata ruffianeria da pianto antico. È un’esigenza vera, di chi scrive, di chi legge, di chi vive.
Noto anche un fenomeno interessante: per un momento scemano le storie d’amore e crescono le storie affettive legate alla propria infanzia e ai propri genitori: una regressione dalla gioventù all’infanzia, una voglia di essere accuditi e amati, una protesta contro la natura crudele e fuggitiva degli amori in corso... È come se al confronto con gli amori volatili del presente ci si rifugiasse negli amori ontologici e archetipici, quelli che non tramontano mai, che non tradiscono mai, quelli indelebili, come l’amore dei propri genitori. Amori irrevocabili, e immutabili, anche perché chiusi nel passato che è immodificabile e non può tradire.
Certo, si fa pesante la vena autobiografica della narrativa contemporanea, è troppo ingombrante il peso dell’io scrittore su quel che scrive, ognuno vuol raccontare la sua vita; e condivido gli appelli di chi invoca di uscire da queste forme di autocelebrazione o di autocommiserazione, di piacioneria e piangentismo. Uscite dal vostro ombelico, per favore, il mondo esiste, non è solo una pustola dell’Ego. Detto e sottoscritto questo appello al disarmo mondiale dell’egocentrismo e della bambineria di lungo corso, riconosco che ripartire dal cuore della propria vita sia inevitabile e salutare.

Lìimportante è ripartire e non concludersi là, in braccio a mammà e papà. Non vogliamo che la narrativa si autocondanni agli arresti domiciliari. Ma che non dimentichi, uscendo nel mondo, le chiavi di casa e la via del ritorno.

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