Il Ministero dei Beni culturali si occupi soltanto della produzione contemporanea, mentre un'Autorità pubblica, che fa capo alla Presidenza della Repubblica, tuteli il patrimonio storico-artistico. È questa la proposta («sparata» sulla prima pagina del Giornale dell'Arte) avanzata da Benedetto Marcucci, giornalista e consigliere - per due legislature - della Presidenza della Commissione cultura della Camera. Marcucci ha il merito di aver individuato il problema: occorre far arretrare la macchina dello Stato dalla cultura. È un dibattito presente in tutta Europa: dai tre professori tedeschi autori di Kulturinfarkt (Marsilio) ai docenti francesi autori di un volume ancora inedito in Italia, Il patrimonio culturale e la sua decentralizzazione, è ormai fiorente la discussione su come smantellare la piramide dello Stato che ha allontanato i cittadini dai Beni culturali e non ha promosso partecipazione alla cultura. Il pesante limite della proposta di Marcucci è che la conservazione del patrimonio rimane saldamente in mano allo Stato, secondo quanto prevede l'art. 117 della Costituzione e il Codice dei Beni culturali. La sua proposta va nella direzione giusta, ma non muta la sostanza. La vera riforma della Cultura avverrà quando si romperà il tabù su cui si è costruito il suo Ministero: la tutela del patrimonio. Finché la conservazione di qualunque bene culturale rimane nelle mani dello Stato, le libere insorgenze del territorio - ovvero privati, aziende, associazioni, cooperative - avranno sempre un ruolo gregario di ancella, di puro supporto all'attività di preservazione pubblica. Con il risultato molto depressivo, come lo è oggi, di un distaccamento d'interesse degli individui e delle comunità dal patrimonio che a loro appartiene. Una riforma lungimirante della Cultura deve invece portare all'abolizione del Ministero dei Beni culturali: la gestione del patrimonio storico-artistico deve essere il più possibile esternalizzata, così da permettere che le insorgenze del territorio possano gestire e valorizzare anche economicamente i loro beni culturali, di concerto con le amministrazioni del luogo; le industrie culturali e creative devono far riferimento al Ministero dello Sviluppo economico e necessitano di un fisco meno invasivo; ma il cambiamento più sostanziale è quello della tutela: le soprintendenze e gli istituti centrali per il restauro, che sono stati il tentativo, anche generoso, di una conservazione comandata dall'alto in modo unitario, dovranno essere gradualmente soppressi, a favore di professionisti privati della tutela che lavorano nei territori e che vengono chiamati alla preservazione o alla manutenzione ordinaria dalle amministrazioni locali o dalle comunità che li richiedono. Occorre, per far questo, revisionare l'art.
117 della Costituzione (lo Stato dovrà cessare di avere potestà legislativa esclusiva nella tutela) e il Codice dei Beni culturali. Finché vi sarà conservazione centralizzata di tutto il patrimonio, la cultura in Italia non rinasce.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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