Da "convergenze parallele" a "élite di merda"

Come cambia lo stile degli onorevoli.  All’inizio fu la retorica ideologica. Poi venne l’era del politichese. Infine la colloquialità e il turpiloquio. Ecco come il discorso pubblico ha seguito evoluzione (e semplificazione) del quadro parlamentare

Da "convergenze parallele" a "élite di merda"

di Giorgio Fedel

Cosa ne è del linguaggio politico in Italia? Giova partire dal linguaggio della Prima Repubblica, per poi vederne le trasformazioni. Il punto è che il linguaggio politico italiano nel tempo ha assunto varie forme. Si pensi ad esempio all’eloquio di Pannella che aveva qualcosa d’insolito, di ribelle al senso comune: «l'ostruzionismo contro l’ostruzionismo», «assassinare la speranza»... O a quello di Craxi che scandiva le parole in modo accurato, mirando all’esposizione lineare: «illegittimo è non chiamare le cose con il loro nome, ingenerando confusione nei termini politici»... O ancora al linguaggio impazzito del ’68 che invocava l’utopia della rivoluzione: «costruire una società che restituisca alla vita umana la ricchezza e la pienezza del suo valore» (da “Lotta continua”). Ma veniamo agli aspetti generali. All’inizio nei comizi elettorali, nei congressi di partito, in Parlamento fioriva un’oratoria improntata all’ideologia: il discorso pubblico proclamava innanzi tutto i principi di una dottrina. Il che si spiegava con la presenza di un forte partito comunista, alleato dell’Urss, con una netta identità politica e specifici obiettivi, tra i quali delegittimare il regime democratico italiano sullo sfondo della guerra fredda. Si pensi a Togliatti: «Noi siamo il partito della classe operaia e non rinneghiamo, non rinnegheremo mai, questa nostra qualità» e a Berlinguer: «Continuiamo a lottare per dare pieno valore alle speranze degli sfruttati».

Il linguaggio si eleva così a visioni etico-politiche di ampio respiro nel quadro di una lotta (cui partecipa anche l’altro partito anti-sistema, il Msi) tra l’ideologia democratica e le contro-ideologie («Tutto quello che rompe con le forze totalitarie, tutto quello che contrasta il gioco degli opposti estremismi concordi nell’intaccare le basi del sistema, garantisce i valori della democrazia», Moro). Questo tipo di oratoria deperisce con la caduta del Muro, quando inizia la disgregazione dell’impero sovietico, che toglie terreno all’ideologismo: non è più possibile contrapporre al regime democratico altro sistema politico e la credenza nella legittimità di tale regime è condivisa, e dunque data per scontata. Ma vi è un secondo aspetto. Il linguaggio che pervade la politica della Prima Repubblica non è solo quello di tipo ideologico; ve ne è un altro, e di tipo completamente diverso. È il «politichese»: un linguaggio esoterico tutto interno alla classe politica e che risulta oscuro ai semplici cittadini perplessi di fronte a formule come le «convergenze parallele», e gli «equilibri più avanzati». Questo linguaggio è collegato al fatto che le elezioni non producono direttamente il governo, ma quote di forza parlamentare ai partiti; e sono i partiti che, dopo le elezioni, decidono la coalizione di governo, e devono mantenerlo in vita contrattando incessantemente. Di qui un linguaggio allusivo, che dice e non dice, sfruttando l’ambiguità quale artifizio utile alla negoziazione. Un esempio tratto da un discorso del democristiano De Mita: «Abbiamo ricercato da tempo la possibilità di un incontro. Se prima non c’è stato è perché qualcuno non si è detto disponibile. Se ci fosse la possibilità di incontrarci in presenza di una iniziativa utile, la nostra disponibilità c’è. Se però questo rito serve soltanto a rendere ancora critica la spiegazione della crisi, credo che non sia una iniziativa da incoraggiare». Con la Seconda Repubblica questo tipo di linguaggio si attenua, poiché diventa inutile: grazie a nuove regole elettorali e al bipolarismo, i due leader e le rispettive coalizioni sono predefiniti al momento del voto; sicché è l’esito elettorale a designare direttamente l'esecutivo. Nella Seconda Repubblica il linguaggio della classe politica diventa pertanto estroverso: maggioranza e opposizione, quali che siano, parlano ora senza oscurità e con continuità alla cittadinanza-elettorato. Queste trasformazioni fanno da sfondo più o meno ravvicinato al formarsi di una nuova retorica politica, il cui campione è Berlusconi (ma anche Bossi). Si tratta di una retorica comunicativa, che trasmette un senso di naturalezza e spontaneità. La sintassi è semplice (frasi accorciate, e messe sullo stesso piano), il lessico immediatamente comprensibile. Nella sintesi di Berlusconi stesso: «La storia d’Italia è a una svolta. Da imprenditore, da cittadino e ora da cittadino che scende in campo, senza nessuna timidezza ma con la sola determinazione e la serenità che la vita mi ha insegnato, vi dico che è possibile farla finita con una politica di chiacchiere». Siamo ormai in una prospettiva post-ideologica: non si fa più appello alle categorie astratte in cui le ideologie risolvono le persone concrete (classe, massa, storia); bensì all’individuo comune, sia pure anonimo e statistico: «milioni, milioni di italiani che continuano a compiere il loro dovere tutti i giorni, tutte le mattine uscendo dalle loro case» (ancora Berlusconi). Il crollo dell’ideologia ha aperto anche la crisi nel linguaggio politico italiano. È un problema che colpisce innanzi tutto la sinistra riformista. Al crollo dell’Urss e del marxismo-leninismo va ovviamente ricondotta la perdita da parte del Pci (poi Pds, Ds, e infine con altre forze politiche, Pd) della propria identità. Già il discorso di Occhetto alla Bolognina registrava questa difficoltà frammentando i simboli del «noi» in una nebulosa (dal movimento delle donne, alle svariate categorie professionali, e poi il pacifismo, l’ambientalismo, il mito del Nord contro il Sud del pianeta). Né l’oratoria di Veltroni riusciva a risolvere la questione colmando lo scarto tra aspirazioni e realtà con un profluvio di superlativi («il più grande partito riformista che la storia d’Italia abbia mai conosciuto») e toni didascalici. Vi è poi il problema dello stile. La magniloquenza lascia il posto alla colloquialità (a volte con tinte regionali) spesso infarcita di termini tratti dal tecnicismo specie economico. Oggi, a parte i già citati Berlusconi e Bossi, agli estremi opposti ci sono l’oratoria sgangherata di Di Pietro, una sorta di grido di battaglia per elettrizzare i fedeli: «ricatti, inciuci, logica del più forte e del malaffare»; e la sciolta parlantina di Fini, che occulta la dimestichezza con i fatti di potere dietro l’invocazione dei valori. Lo stile colloquiale ha però un inconveniente: l’informalità allenta i vincoli e talvolta conduce al turpiloquio. Il quale in effetti è entrato abbondantemente nel linguaggio dei politici. A dir il vero, non è solo un fenomeno dell’oggi.

È già presente nel linguaggio del ’68 («metterlo in culo al padrone»), si rinfocola ai primi tempi della Lega (il famoso «celodurismo»). Ma ora si insinua nell’eloquio di chi occupa i vertici: dalla categoria dello «sputtanare» (e derivati) usata da Berlusconi, alla «élite di merda» di Brunetta, fino al più recente «stronzo» di Fini.

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