Cultura

Ero ancora studente quando, nell’ottobre 1960, conobbi Luciano Erba (morto ieri notte a 88 anni, era nato a Milano nel ’22): gli veniva consegnato il premio «Cittadella» per Il male minore, che riuniva nello «Specchio» mondadoriano la sua produzione giovanile. Trentottenne, Erba godeva già di un sicuro credito tra i «giovani maestri» della generazione post-montaliana e post-ermetica. Nel ’52, motivatamente, era stato inserito - lui milanese - nella «linea lombarda» individuata da Luciano Anceschi.
Professore universitario di Letteratura francese (da ultimo alla Cattolica di Milano), Erba non mostrò mai la boria dell’accademico, né pretese mai di puntellare il suo lavoro di traduttore, di saggista e di poeta con ragioni teoriche. Ma specialmente per il poeta sarebbe improprio parlare di «lavoro», perché nella lentezza con cui procede la sua storia poetica, mai programmata e intervallata da pause anche lunghe, si coglie l’acume sensibile di un ozioso disincantato, non già il palpito febbrile di un sacerdote dell’Arte.
Mi tornano in mente, dalla giovinezza di questa poesia, versi e scorci a cui l’apparente casualità non toglie efficacia: dalla formula della «vita perduta per disattenzione» a scenari come la «sera qualunque» di Milano, «traversata da tram semivuoti».
Un po’ in anticipo sull’ottantesimo compleanno dell’autore un «Oscar» ci ripresentò tutto intero l’arco di questa esperienza di poesia: allora non fu difficile ravvisarvi molti aspetti di continuità pur nell’empirismo sostanziale che ne governa ogni episodio. Da Il prato più verde a L’ippopotamo, dal Tranviere metafisico a L’ipotesi circense, da Il cerchio aperto a I remi in barca, per citare qualche titolo che magari confluiva poi in strutture più ampie, risulta man mano accentuata, su fondamenti di un realismo assai «lombardo», un’istanza metafisica o quanto meno onirica. Le schegge del vissuto irrompono via via più irresistibili ma sul referto visivo la distanza temporale esercita un suo potere straniante. Così dove Erba rievoca dall’infanzia il rituale arrivo in treno a Genova e il rivelarsi della città coi suoi altissimi edifici al termine di una serie di gallerie. Accennavo ai sogni, sempre più fitti e arcani, come a compensare la quotidianità senza avventure sul cui filo corre e si stanca l’esistenza di quest’uomo.

In una casa dove gli tengono compagnia una moglie, tre figlie, più alcuni gatti ai quali la poesia talvolta si ingegna a carpire i segreti di una grazia imperscrutabile.
Credente, cattolico, conservatore giudizioso, Erba tuttavia ha saputo varcare spesso il perimetro delle proprie stanze. E non soltanto nei sogni.

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