Damiani, il poeta che usa la penna per affettare (tutte) le ideologie

Non è favolistico (almeno per i non credenti e per gli accaniti relativisti), mettere da subito in gioco, nella poesia di Claudio Damiani, il fatto che sia nato nella palude di San Giovanni Rotondo, sotto la rupe che glorifica il mare di Manfredonia, trono dell'Arcangelo Michele. Forse è perché ho l'ossessione di pensare che in letteratura nulla si affidi al caso. Azzardo questa lettura di Il fico sulla fortezza (Fazi Editore, pagg. 126, euro 12), di Claudio Damiani, perché il poeta che fu bambino nel campo di battaglia di Padre Pio, è l'artista che pur conoscendo ombre, buio, dolore, e soprattutto morte, sa tagliare con la spada dei grandi poeti il confine che segna la nostra esistenza di sempre, così confuso tra volgarità e civiltà. L'elmo che fa paura, come scrive in un ultimo verso, è quella corona di alloro che oggi indossano i vip o gli intellettuali in maschera. Damiani, invece, si cinge di una corona fatta di fieno, di animali, di pietre di cui faceva tesoro da ragazzino nelle miniere abbandonate di Porto Ferraio: Patria paterna.
Ecco quindi la parola giusta per Claudio Damiani: Patria. Anzi, «Patrie» è perfetto. Una è dove vince l'amore sulla morte; una è dove la morte non è tragedia ma solo francescana pietruzza del cosmo; un'altra è fatta di tutto l'oro che piove sui versi e tra i nostri capelli e sul nostro corpo; un'altra è ricordare che per dote l'Italia ha lo sfarzo, e gli italiani sono i geni del mondo; un'altra è imparare a vivere con niente; un'altra è pretendere da se stessi solo doveri, cancellando i diritti (vedasi alla voce intellettuali e politici); un'altra è l'universo che procede in un movimento semplice e onesto come il lavoro degli antichi artigiani che prima forgiavano una balaustra, o sfornavano un mobile, poi chiedevano il compenso al committente; una si trova in un silenzioso e visibilissimo (per chi ha ancora gli occhi per guardare e le orecchie per ascoltare) Cantico delle Creature; un'altra nel cercare sempre la bellezza. Invece la più ambita e cercata dal poeta è quella che abbatte a colpi di versi le ideologie vecchie e nuove; un'altra è nella gentilezza; una nella grazia; una è parlare, scrivere e pensare nell'italiano di Leopardi, Corazzini, Penna, di Ungaretti ricordando Ovidio, Orazio, Omero. Allora il mondo si apre a un animalismo cosmico, fregandosene infantilmente e gioiosamente dell'orrido nichilismo.

Il fico sulla fortezza se ne infischia (amando Leopardi di un amore struggente) della ginestra sul Vesuvio e fa gridare al poeta-scolaro una esultanza primitiva, precristiana che trasforma ogni sasso in pietra preziosa.
Il fico sulla fortezza è un libro di poesie che si legge come una narrazione animata, sensibile e dunque contenta di procurarci piacere quanto una gita al mare in una bella giornata di ottobre.

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