Delitto nella riserva È morto lo spirito degli indiani d'America

In La casa tonda c'è molto di autobiografico. Un'autrice originale (pupilla di Philip Roth) in bilico tra successo e lotta per i diritti umani

Delitto nella riserva È morto lo spirito degli indiani d'America

Che quella di Louise Erdrich sia una vita eccezionale, sul crinale fra battaglia civile, noir e tragedia greca, è un fatto. Che però questa americana del Minnesota, classe 1954, autrice di 13 romanzi e molte altre opere tra poesie e memoir sia una delle poche scrittrici contemporanee in grado di trasformare ciò che le accade in indimenticabile narrazione è una splendida notizia per la letteratura.
In questi giorni arriva in libreria con quello che sembra un giallo: La casa tonda (Feltrinelli, pagg. 384, euro 19, trad. di Vincenzo Mantovani), con cui ha strappato a Junot Diaz, Dave Eggers e Kevin Powers il «National Book Award» 2012, uno dei premi americani più prestigiosi. Ambientato un quarto di secolo fa in una riserva indiana nel North Dakota, vede protagonista Joe, tredicenne tosto quanto i figli di Atticus Finch o i ragazzini di Stand by me. Suo padre è il giudice Coutts dalla voce tonante, «qualcosa di raro e che ottiene dei risultati». Suo idolo assoluto, il klingon Worf di Star Trek: The Next Generation, perché: «La soluzione di ogni problema per Worf era l'attacco». Joe insomma ha il sangue intriso di coraggio, oltre a ritrovarsi spesso per le mani il “Manuale di diritto federale indiano”. Sicché quando sua madre Geraldine viene aggredita, stuprata e sfugge per un pelo all'essere bruciata viva, il ragazzo è un compatto corpo disperato che urla vendetta.
Sembra un giallo, dicevamo (e peraltro la soluzione arriva davvero nelle ultimissime pagine). Ma in realtà questo romanzo, come molti altri della Erdrich, ha le sue radici profonde nell'autobiografia. Quella parte di autobiografia che tutti i suoi lettori conoscono, perché abituati a storie come The Plague of Doves, romanzo finalista al «Pulitzer» e grazie al quale venne unanimemente accostata a William Faulkner e Gabriel García Márquez, in cui i protagonisti - in questo caso quattro indiani accusati di aver ucciso una famiglia bianca - hanno sempre un piede dentro e uno fuori dalle riserve. Quella parte di autobiografia che comprende il suo quarto materno di sangue Chippewa che la spinge, ogni estate, a passare una settimana in un monastero della riserva Turtle Mountain per partecipare al powwow, il raduno spirituale, cantare con gli altri «Desperado» e Janis Joplin e dirigere un workshop di scrittura al college locale. La stessa riserva in cui crebbe sua madre e di cui suo nonno Patrick Gourneau fu per anni presidente tribale. La stessa riserva nei dintorni della quale, a Fargo, vivono i suoi genitori, felicemente sposati da oltre sessant'anni: la loro vita serena somiglia a quella del giudice e di Geraldine prima che la tragedia la travolga. Quella parte di autobiografia che ha fatto della Erdrich una combattente per i diritti dei nativi, che denuncia al mondo politico americano con editoriali sul NYT che una donna indiana su tre viene violentata e che l'86% degli stupri e delle violenze sessuali su donne indiane si devono a non indiani.
Ma c'è un'altra parte di autobiografia, che molti dei suoi lettori cominciarono a conoscere solo quindici anni fa. Quando lo scrittore Michael Dorris, con cui Louise formava, a detta dei media, «la coppia da poster della letteratura multiculturale», i meglio pagati, meglio venduti e meglio recensiti scrittori Nativi Americani degli anni Ottanta e Novanta, si suicidò nella camera di un motel del New Hampshire. I due avevano divorziato l'anno precedente. Erano belli, dolci, piacevano a tutti. I loro libri vincevano premi, le loro storie piacevano a Hollywood. L'America intellectually correct rimase scioccata. Ancor più quando si scoprì che Michael era indagato per abuso sessuale nei confronti di sua figlia. Una dei suoi sei figli, di cui tre adottivi e tre figlie di Louise. Un figlio era morto in un incidente d'auto cinque anni prima. Un altro ricattava e minacciava di morte i genitori da anni, fino al carcere. Ma se amici e nemici addussero l'onta di quell'accusa come causa del suicidio, Louise fu perentoria: «Michael era un potenziale suicida già dal secondo anno del nostro matrimonio».


Quella depressione cronica, l'abuso di alcol per cui si era più volte curato e la disperazione della coppia erano l'essenziale invisibile di cui la Erdrich narrò in Passo nell'ombra (Feltrinelli), primo libro con cui ci fu dato di sapere che si trattava di una delle scrittrici preferite di Philip Roth. Il quale, per definire un suo romanzo, non è mai sceso sotto lo standard di «capolavoro».

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