Il sonno della cultura. Non so se ci avete fatto caso, ma giorno dopo giorno, anno dopo anno, si è spento progressivamente ogni dialogo, confronto o contesa tra idee, autori, culture differenti. Nessuno si confronta con nessuno, nessuno polemizza sul piano delle idee con nessuno. Le riviste, i giornali, i testi, vanno ciascuno per proprio conto, in totale solitudine, scivolano come rette parallele che non s'incontrano mai, ognuno per la sua strada in cerca di target, di lettori, senza interferenze. Mai s'intreccia una sfida nei giornali e tra i giornali, mai un commento a un libro, un'idea, una visione che dia luogo a un fiorire di autentiche reazioni o almeno obiezioni; tutto scivola in questo depresso narcisismo, tutto è autoreferenziale. Nessun commento sopravvive alla giornata. Non leggo polemiche degne di nota da anni, ormai; quelli di una parrocchia non parlano mai di quelli dell'altra parrocchia, e ogni parrocchia a sua volta è una collezione di solitudini, ciascuno vive di autodevozione o scrive con l'autoscatto, parla di cose che valgono solo sibi et suis, per sé e i propri cari, lettori affezionati.
Questo vale per le riviste culturali, per i settimanali d'opinione, ormai spenti e tramortiti, per i convegni e gli studi, ma vale anche e soprattutto per i giornali: avete mai letto, che so, una polemica o solo un confronto a distanza di qualche rilievo tra le pagine culturali del Domenicale e de La Lettura, del Corriere della sera e de La Repubblica, de La Stampa e di chi volete voi? Non c'è solo la già deprecabile omertà per residua barriera ideologica su quel che scriviamo, pensiamo, noi, qui al Giornale o in altri fogli più o meno consanguinei (con una precisa dissuasione dei tenutari di giornali e settori culturali, a me testimoniata da alcune loro firme, a ignorare libri e temi da loro messi all'indice). Ma la cosa si estende a tutto l'universo culturale e sono davvero sporadici i raffronti, le divergenze. Voi ricorderete cos'era il dibattito storiografico ai tempi di De Felice e di Furet, il dibattito sui cattolici ai tempi di Baget Bozzo e Del Noce, il dibattito culturale tra destre e sinistre intellettuali, tra eredi del comunismo ed eredi liberali o nazionalisti, tra cattolici e laici, tra conservatori e progressisti, tra global e tradizionalisti, tra scientisti e creazionisti o naturalisti. O ancora i dibattiti intorno ad autori controversi (Heidegger e Sartre, Pasolini e Sciascia, Nietzsche e Marx, Freud e Jung, ecc.) e temi e filoni letti in modi opposti.
Quanto ci sarebbe oggi da discutere sul dominio dei tecnici e sulla vera o presunta dittatura della finanza, sull'impatto delle nuove tecnologie e nuovi media sul pensare, sulla cultura, sugli intellettuali. Quante tesi si potrebbero confrontare davanti a nuove forme di ingiustizie sociali o culturali, di chiusure e di amnesie. E quanto si potrebbe dire sulla perdita dei temi che costituivano il terreno comune di una società e oggi si sono desertificati in un'asfittica atrofia? Ha un ruolo e un senso l'educazione, la formazione di una coscienza civica, l'eredità della storia e delle tradizioni, il peso dell'autorità? Si può declinare in modo divergente l'idea di libertà e non ridurla solo a liberazione, emancipazione, sradicamento? Non c'è un tema che oggi percorra, animi, unisca o divida la cultura e i suoi abitanti. È quello propriamente l'indice più significativo di un fenomeno in corso: la perdita della vivacità culturale. Ovvero, il trionfo del mortorio. È il timore che parlando di qualcuno o qualcosa che è esterno al proprio recinto si dia soverchia importanza al prossimo, o magari si faccia un gratuito favore alla concorrenza, che invece è sempre, per definizione, da ignorare.
Il risultato è il mutismo delle idee. La ruspa dei clan rade al suolo ogni svettante qualità, disconosce ogni eccellenza, perché quel che conta è da che parte stai, su che testata scrivi, in che circuito sei o, peggio, non sei. Ciascuna conventicola, testata, gruppo editoriale ha i suoi Venerabili Maestri, oggetti di culto, da Umberto Eco per il gruppo La Repubblica-L'Espresso a Claudio Magris per il Gruppo Rizzoli-Corriere della sera, più una costellazione di divinità minori. Al più ogni tanto c'è l'omaggio di un Palazzo alla divinità domestica dell'altro o il passaggio di un nume da un tempio all'altro (Pietro Citati, o il bigamo Alberto Arbasino); ma oltre l'ammissione di sporadici culti stranieri o di rispettosi inchini ai Lari e alle teche della cittadella avversa non si va. Il massimo che può accadere, per darsi una spruzzata di antiprovincialismo, senza danneggiare il proprio esercizio su piazza, è riportare qualche scritto ripreso da giornali stranieri, così c'è un tocco d'internazionalità. Ma sono solo brevi spruzzate e gli autori che approdano in Italia sono le solite star di giro della cultura occidentale: Bauman e Todorov, Lévy e Grossman, Roth e Rushdie, Pennac e Sepúlveda, solo per citare alla rinfusa. Ma niente discussione, solo ciliegie sulla torta, fregi o decorazioni da ostentare. Magari nei loro più banali scritti, i più insipidi perché in formato standard esportazione.
La cultura è ormai stagnante, cioè divisa in compartimenti stagni, incomunicante, si trasmette solo da autore a lettore, o peggio da attivo a passivo, come un virus, non ponendosi in relazione con altri autori. La cultura rischia di finire come i vecchi immobilizzati, anchilosata o peggio, con le piaghe da decubito. Quando s'interrompe la circolazione delle idee, la cultura deperisce lentamente d'asfissia. Aria morta, pensieri stantii, pagine rancide. Così deperisce non solo la tradizione - che si fonda sulla trasmissione, sulla relazione che tramanda, a volte pure criticando; ma sfiorisce anche la trasgressione, perché si trasgredisce se c'è una norma o un confine da valicare. Se non c'è un canone riconosciuto, non c'è nulla da violare. E la trasgressione si fa canone, luogo comune, perfino riflesso condizionato.
Mi auguro solo una cosa: che queste solitudini o fuoruscite dal vocio colloquiale del proprio tempo, migliorino la qualità delle opere e la concentrazione degli autori, non disperdano nel chiacchiericcio ma riscoprano le virtù del silenzio, e sostituiscano il dialogo orizzontale col muto colloquio verticale: quello con i classici, con i grandi del passato. Il dialogo con le «antique corti delli antiqui homini», la connessione a ritroso, fuori dalla contemporaneità, tramite quel prodigioso medium che è la biblioteca. Ma forse è solo una consolatoria illusione.
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