Cultura e Spettacoli

Dietro ai beni comuni si nasconde la retorica del luogocomunismo

U n gruppo di qualificati studiosi di orientamento liberista e libertario, che si raccoglie intorno all'Istituto Bruno Leoni di Milano, ha dato ora alle stampe un testo di grande interesse e destinato a sicura polemica: I beni comuni oltre i luoghi comuni (a cura di Eugenio Somaini, IBL, 2015, pp. 280, euro 15,30).

Si tratta di una raccolta di saggi divisa in due parti: la prima analizza, in generale, le motivazioni teoriche dei sostenitori dei beni comuni, la seconda sottopone ad un vaglio critico i vari ambiti che, in qualche modo, possono includere un'idea di bene comune, e cioè l'acqua, il cibo, il suolo, la città, l'ambiente, la conoscenza, i beni culturali, internet.

Come si evince dal titolo del volume, lo scopo degli autori è quello di smascherare gli stereotipi, ovvero i luoghi comuni, che, in generale, pervadono le argomentazioni svolte dai propugnatori dei beni comuni. Si vuole portare la discussione su un piano rigorosamente logico e analitico, sottraendola a ogni valenza ideologica, a ogni dimensione demagogica e a ogni risvolto enfatico. A loro giudizio l'idea di bene comune, così come viene presentata dai suoi sostenitori, appare troppo controversa, complessa e contraddittoria perché sia possibile conferirle un'univoca interpretazione economica, politica e giuridica. La discussione è resa complicata dal fatto che agli stessi termini sono spesso attribuiti significati diversi, secondo il contesto disciplinare in cui vengono impiegati e secondo i vari autori che li impiegano. Tali ambiguità riguardano soprattutto proprio l'uso di aggettivi come «comune», «pubblico» e «privato», con riferimento a beni e in alcuni casi anche al significato attribuito al sostantivo «beni». La nozione di bene comune, proprio per la sua pretesa etico-universalistica, finisce per prestarsi a formulazioni generiche e fumose che sfuggono ad ogni precisa definizione, rendendo vano ogni sforzo analitico e propositivo. In altri termini, manca una chiarificazione concettuale di cosa si debba intendere per beni comuni e i criteri da adottare per individuarli, come manca, per conseguenza, una proposta adeguata riguardante le loro applicazioni concrete. Ne consegue, tanto per fare qualche esempio, l'inevitabilità di alcune domande a cascata poste dagli autori del testo: cosa si deve intendere per bene comune? Chi stabilisce che cosa è un bene comune? I beni comuni esistono già o bisogna produrli? Quale deve essere il loro uso? A chi sono destinati e, soprattutto, come e chi li amministrerà e per conto di chi? Tutte domande, come si vede, che rimandano complessivamente ad un problematica giuridico-normativa ancora da svolgere e da stabilire. Non è sufficiente invocare il soddisfacimento di bisogni essenziali e irrinunciabili (ma quali?) per il mantenimento della «dignità umana», dello «sviluppo della personalità» o dell'uguaglianza. In conclusione per gli autori dei vari saggi la nozione di beni comuni è priva di basi solide e coerenti e fornisce contributi assai modesti alla comprensione sia dei molteplici e inestricabili intrecci che legano la sfera privata a quella pubblica, sia dei molteplici effetti delle innovazioni tecnologiche e istituzionali degli ultimi decenni.

In realtà, l'emergere, a partire dagli anni Novanta, del tema dei beni comuni è la spia altamente significativa del disorientamento teorico e politico della sinistra anticapitalista, l'esito ovvio di una serie di sequenze fallimentari che attraversano tutta la sua storia. Vi è stata dapprima la convinzione marxista del tracollo certo e sicuro del capitalismo per morte naturale a seguito di un processo storico ritenuto spontaneo, oggettivo e inevitabile. Quando questa certezza si è dimostrata errata, è apparso il volontarismo leninista che affidava la realizzazione del socialismo al partito e alla dittatura del proletariato. È seguita poi la constatazione della catastrofe del comunismo in tutte le sue varianti. Con la caduta del Muro di Berlino si è abbandonata definitivamente la lotta di classe, sostituendola con la solidarietà sociale. Di qui l'incontro con una parte del mondo cattolico, già avviato peraltro con il compromesso storico. Infine, nell'età della globalizzazione è affiorata l'idea che il socialismo vada costruito con l'individuazione nella società attuale di realtà - di varia natura - che presentino valenze di interesse generale, giungendo così all'invenzione dei beni comuni, versione aggiornata della mitica «terza via» quale superamento dell'alternativa fra capitalismo e comunismo. Essa dovrebbe consentire lo sviluppo di forme partecipative e deliberative di democrazia diretta; insomma, schematizzando un po', un tragitto a ritroso che va da Marx a Rousseau.

Per i liberisti e i libertari dell'Istituto Bruno Leoni questa «terza via» non ha alcun reale fondamento scientifico, essendo semplicemente l'ultima versione (mascherata) del solito statalismo e della solita pregiudiziale avversione anticapitalista al profitto, al libero mercato e alla proprietà privata (entità sempre demonizzate), ostilità motivate dalla radicata convinzione, del tutto superstiziosa, della superiorità morale del pubblico rispetto al privato.

A questo proposito essi sottolineano che i propugnatori dei beni comuni risultano, non a caso, olimpicamente indifferenti allo statalismo corrotto e inefficiente - e fonte di clientelismi di ogni genere - che in continuazione sperpera le risorse (queste sì!) pubbliche.

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