Cultura e Spettacoli

Donato Bramante, l'archistar del '400 che servirebbe oggi

Donato Bramante fu un vero genio universale: rivoluzionò la maniera di unire progettazione, architettura, pittura e decorazione. Una lezione per l'Expo

Donato Bramante, l'archistar del '400 che servirebbe oggi

Prima archistar: Donato Bramante è il genio universale che, forse ancor più di Leonardo, ha rivoluzionato la maniera di integrare scienza costruttiva e decorazione, portando in Italia settentrionale il vento nuovo delle conquiste prospettiche raggiunte dalla scuola toscana. A lui, e all'impatto che la sua opera ha avuto sul sistema delle arti in Lombardia, è dedicata, a 500 anni dalla morte, la mostra Bramante a Milano, 1477-1499 , alla Pinacoteca di Brera (fino al 22 marzo, catalogo Skira). Una ricognizione sull'età sforzesca che consente di fissare un momento-chiave per la vocazione storica alla progettazione e l'innovazione della città dell'Expo. Bramante è infatti un grande uomo di cantiere, protagonista in tutte le più importanti fabbriche meneghine dell'epoca. Ma è anche - ecco la novità della sua lezione - un pittore straordinario, quello che non erano stati Leon Battista Alberti e Filippo Brunelleschi. Capace di raccontare la novità della propria visione architettonica attraverso i dipinti. I disegni dei suoi edifici sono infatti tutti perduti. Abbiamo, certo, le realizzazioni. Ma se vogliamo conoscere l'architetto, è al pittore che dobbiamo guardare, come a un ponte avanzato in terra padana delle idee più sofisticate di Piero della Francesca.

Veniva da Urbino, dal contado del ducato dei Montefeltro. E forse il percorso della mostra sarebbe dovuto cominciare proprio dalla pala braidense di Piero, inamovibile per fragilità dalla sala XXIV (ma davvero si può pensare che un dipinto non possa essere spostato di qualche stanza?). A parziale palliativo, compare la Tavoletta Cagnola , ascrivibile al maestro di Bramante, Fra Carnevale, cui la Pala di Montefeltro era attribuita al momento del suo arrivo, nel 1811, a Brera. Si riconosce uno sfondo architettonico che somiglia al Tempio Malatestiano. Sul verso è invece intarsiata una figura geometrica che sembra cavata da un trattato del matematico di corte Luca Pacioli. Bramante proviene da questa temperie culturale, in cui studio di prospettiva e proporzioni si fondono con uno stile disegnativo che riecheggia il passaggio per il Montefeltro di Melozzo da Forlì. E se Piero è totalmente assorbito dalla propria ossessione geometrica, Bramante si attarda nella descrizione di una capigliatura e nelle complicazioni di un panneggio, figlio del proprio tempo e tuttavia sensibile all'ultima eco della stagione tardogotica.

La sua comparsa sulla scena milanese coincide con un'invenzione-manifesto affidata al torchio dell'incisore Prevedari. È un bulino del 1481, la rappresentazione dell'interno di un tempio con figure, in vertiginosa prospettiva. Quella stampa varrà come lo squillo di tromba che annuncia una rivoluzione, spazzando via il linguaggio stagnante degli artisti stretti attorno alla corte di Ludovico il Moro. Le volte forate e cassettonate, i fregi coi centauri, le figure addensate in capannelli, gli oculi e le lunette: mentre tutti tentavano di copiarne gli elementi di novità, Bramante era già pronto a tradurre quella visione bidimensionale nella finzione prospettica dell'abside di San Satiro, architettura che finge illusionisticamente un coro che non c'è nello spazio risicato della parete di fondo. Di stupore in stupore: chi transitava per la chiesa annotava e ripeteva. Persino Vincenzo Foppa, nella Madonna del Tappeto adotterà gli ornati bramanteschi, ricalcando il possente arco da quello di San Satiro.

La ricezione di Bramante è d'altronde a tal punto capillare da farne uno standard, e le stesse architetture ricorrono in miniature, pergamene, vetrate, tempere e oli, come una quinta scenica che vale da sola a fare di una rappresentazione realtà. E quando gli chiederanno di decorare il palazzo dove viveva Gaspare Ambrogio Visconti, vicino a Sant'Ambrogio, i suoi uomini d'arme tradurranno in forme monumentali e grottesche il gusto antiquario che aveva fatto la fortuna di Mantegna. Guardateli oggi quei giganti: sul volto portano tutti una specie di ghigno indecifrabile, sospeso tra eloquenza e beffa. Ineffabili.

Proprio come un'archistar.

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