Pare che l'ultimo romanzo di Michael Cunningham abbia che fare con Dio. Con ironia, distacco, insuperabile modernità e una valigia piena di dubbi La regina delle nevi (Bompiani), del 62enne scrittore di Cincinnati da tempo di casa a New York, ha convinto la critica - e si parla della critica più autorevole, dal New York Times in giù o in su, a seconda di come la si legge - che visioni, ricerca di una rivelazione, dialogo con un ordine superiore costituiscano i nuovi pilastri della ricerca narrativa del suo autore. Quindi, la prima cosa che abbiamo chiesto al Pulitzer per Le ore quando lo abbiamo incontrato proprio dove ha scritto parte del romanzo - ovvero la Santa Maddalena Foundation di Beatrice Von Rezzori negli splendidi dintorni di Firenze - è se la storia, ambientata nei sobborghi di Brooklyn una diecina di anni fa, di questo 38enne di nome Barrett Meeks, che lavora in un negozio di abiti vintage, è appena stato lasciato dal suo boyfriend e ha un fratello maggiore musicista, Tyler, sia o no la storia di un uomo che riceve il dono. Il dono che dovrebbe aiutarlo a comprendere non soltanto la malattia di Beth, fidanzata di Tyler con un cancro al quarto stadio, ma anche la dipendenza di Tyler dalle droghe e il coraggio di Beth nell'affrontare la vicinanza di sorella morte. Quale dono? La fede, naturalmente.
«La fede? Non so ancora bene che cosa sia» ci ha risposto con lo sguardo magnetico e colmo di saggezza che hanno solo i grandi attori e i gatti isolani. «Sono stato cresciuto come un perfetto cattolico e ho sempre pensato che prima o poi un angelo sarebbe sceso dal cielo a darmi delle spiegazioni. Quando ero bambino aspettavo addirittura la Vergine Maria: non è mai arrivata. D'altra parte non ho mai saputo che cosa avrei risposto io, all'angelo o alla Vergine. Ora non mi sento cattolico, direi più agnostico. Sono aperto a tutte le possibilità: non sono ateo e non sono religioso, sono in cerca di qualcosa. Mi avvicino alle religioni e vedo se può esistere qualcosa che vada al di là degli esseri umani, un piano più vasto, che oltrepassi i tv show settimanali e il problema di doversi mettere a tavola per cena ogni sera: un significato». Innescare in un personaggio il complesso meccanismo della ricerca di un significato richiede però un evento simile al deus ex machina classico: «Quando ho pensato a questo romanzo per la prima volta, sapevo che avrei voluto introdurre un evento più che umano: qualcosa di più fisico di un corpo, un'apparizione. Ma che cosa sarebbe successo al mio personaggio se l'apparizione non avesse avuto nulla da dire? Se lui avesse percepito una forza che c'è ma che non ti dice che cosa fare?». È per questo che La regina delle nevi si apre con una visione: «Una luce celestiale apparve a Barrett Meeks nel cielo sopra Central Park, quattro giorni dopo l'ennesima batosta d'amore». Si tratta di «Una pallida luce color acquamarina, una velatura traslucida, al livello delle stelle». Barrett, immerso in quel momento in prosaici ragionamenti sul perché quando l'amore finisce la sensazione d'essere un uomo «stagionato e bisognoso» prenda il sopravvento, scambia la visione per un'anomala aurora boreale. Finché non si sente «guardato» dalla luce, anzi «percepito da essa».
Certo, poi cerca su Google una soluzione plausibile: «Non smettiamo mai di cercare risposte: oggi si chiede a Google come un tempo si andava dal prete», chiosa Cunningham. «Il romanzo si occupa di tre delle principali urgenze contemporanee americane» ci spiega. «Il desiderio, le droghe, la religione. Il desiderio - che un tempo sarebbe confluito nel sesso - è quello compulsivo del consumo, dell'acquisto, del possesso degli oggetti. Una specie di continuum della spiritualità che si esprime nel materialismo: il culto per un nuovo paio di scarpe».
Eppure il titolo sembra non avere nulla a che fare con tutto ciò: anzi, è letteralmente preso a prestito da una favola di Andersen, la stessa che ha da poco ispirato l'ultimo successo Disney, Frozen, dalle cui cupe atmosfere l'autore si sente parecchio distante: «Il titolo è venuto di colpo e mi ha ispirato più per le parole che lo compongono che per la favola che indica. Come vediamo il mondo se abbiamo un pezzo di ghiaccio negli occhi? Non ho scelto il titolo di una favola per fornire al lettore una morale: non ho nessuna autorità per farlo. Però in Andersen l'amore è la cosa più potente e penso che questo sia vero. Ho avuto la dimostrazione che l'amore può cambiare le cose».
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