Dal Duce al Cavaliere i giudizi del Re degli impolitici

Il Festival di Spoleto dedica una pièce teatrale al grande giornalista Che in scena parla con Mussolini, Togliatti, Moro e Berlusconi

Dal Duce al Cavaliere i giudizi del Re degli impolitici

Della religione disse: «Credo in Qualcuno. Ma non credo che saprò mai, né da vivo né da morto, chi è, e come è fatto». Delle donne: «La mia donna ideale? Alta, magra, vestita di velluto nero, con un lungo, bianchissimo collo di cigno. Con gli occhi azzurri. I capelli d’oro. Infinitamente dolce, aerea, elegante. Ah, incontrassi una simile creatura! Ogni sera l’accompagnerei nella sua camera, la spoglierei, la metterei a letto cospargendoglielo di rose. E correrei al bordello, da una puttana grassa, sguaiata, volgare». Della cultura: «La più grande prova di amicizia e di fiducia che un intellettuale possa dare a un altro intellettuale sarebbe quella di confessargli che non ha più letto Leopardi dai tempi del Liceo, che non ha nessuna voglia di farlo, e che le poche volte che ci si è provato è morto di noia». Della proprio talento per l’affabulazione e l’invenzione: «Quando mi viene in mente un bell’aforisma, lo metto in conto a Montesquieu, o a La Rochefoucauld. Non si sono mai lamentati». Della politica: «Che la classe politica che ha esercitato il potere negli ultimi 30 o 40 anni sia stata, nel suo insieme, corrotta e corruttrice, è vero. Ma è altrettanto vero che al potere è sempre rimasta col nostro voto». Dell’Italia: «In Italia a fare la dittatura non è tanto il dittatore, quanto la paura degli italiani e una certa smania di avere un padrone da servire. Lo diceva Mussolini: “Come si fa a non diventare padroni di un Paese di servitori?”». E degli italiani: «La genialità degli italiani è indubbia. Mi riferisco a quella rinascimentale. Quanto a quella - presunta - di oggi, credo che confondiamo troppo spesso genialità con ingegnosità. Di ingegnosità non manchiamo mai. A furia di comportarci in modo ingegnoso, di considerarci geniali sempre e comunque, rischiamo di comportarci da cretini».

Gli italiani, per Montanelli, erano geniali e insieme cretini. E l’Italia insopportabile e allo stesso tempo insostituibile. Indro Montanelli fu, tra i peggiori antitaliani, il più italiano di tutti. Vedeva i difetti dei suoi connazionali e li fustigava implacabilmente, mitigandone la violenza con la consapevolezza di possederne, da italiano, nella stessa misura. Conosceva bene se stesso, con cui fece sempre i conti, e conosceva ancora meglio l’Italia, cui - raccontandola - non perdonò mai nulla.

Ora, per raccontare ancora una volta Indro, l’Anti-Arci Italiano, il Festival dei due Mondi di Spoleto, così come fece lo scorso anno con Oriana Fallaci, il prossimo luglio porterà in scena lo spettacolo Io e..., un’antologia degli scritti di Montanelli scelti da Ernesto Galli della Loggia e interpretati da Sandro Lombardi, attore toscano, per la regia di Piero Maccarinelli.

Ottimo conoscente (e lettore) di Montanelli, e ottimo conoscitore (e studioso) dell’Italia, Galli della Loggia ha immaginato uno spettacolo costituito da un prologo, in cui Indro parla del rapporto di amore e odio con il suo Paese; da quattro soliloqui su altrettante figure cardine della nostra storia recente: Mussolini e il fascismo, Togliatti e il Pci, Aldo Moro e la Dc, Berlusconi e il berlusconismo; e un epilogo incentrato sulla cosa di cui Montanelli voleva essere più padrone in assoluto: che non era la Vita, della quale dispose sempre come meglio credette, ma la Morte, che avrebbe voluto decidere anche sul come e il quando. E che invece non potè.

Per raccontarci questo Montanelli (che sulla carta sembra più intellettualmente scorretto, e quindi politicamente più vero, della sua non amica Oriana Fallaci, stravolta nello spettacolo teatrale che debuttò l’estate scorsa proprio a Spoleto e che ora sta girando l’Italia), Galli della Loggia ha letto, spulciato, e poi scelto e adattato, una molte di materiale enorme. Montanelli - che aprì la carriera sulla rivista Frontespizio di Piero Bargellini nel 1930 e la chiuse al Corriere della sera, dove firmò fino all’ultima estate, quella del 2001 - scrisse nella sua vita un numero sterminato di pezzi («Ho calcolato, a spanne, tre articoli alla settimana», dice Galli della Loggia) e incalcolabile di idee.

E dal mare magnum di quest’opera tumultuosa, pescando dal Popolo d’Italia di Mussolini, dal Corriere (dove visse e scrisse, tra una secessione e l’altra, 40 anni), dal Giornale («per me fu qui - si sbilancia Galli della Loggia - che Montanelli toccò l’apice giornalistico: vuoi per il periodo storico di aspro conflitto, vuoi perché era il suo giornale, in tutti i sensi, su quelle pagine diede il meglio di sé»), e poi da decine fogli e decine di libri, ecco affiorare stralci del pensiero montanelliano. Sul Duce (personaggio per il quale il giornalista alternò, con perfetta italianità, ammirazione sconfinata e profondo disprezzo), su Togliatti (che, forte di un anticomunismo viscerale, Montanelli non smise mai di punzecchiare), su Moro (verso il quale, come verso tutta la Dc, ebbe sempre un atteggiamento fortemente negativo, appena addolcito dopo l’assassinio dello statista), su Berlusconi (che rispettava per la personalità e la generosità, ma che castigò con ferocia crescente dopo l’entrata in politica), e su tante altre «maschere» italiane e vizi nazionali...

Una volta scrisse: «Io sono un italiano, fra i pochi rimasti che nei confronti dell’Italia s’ispirano all’adagio inglese: “Che abbia ragione o torto, sto col mio Paese”. Anch’io sto col mio Paese quando ha torto, ma senza pretendere che il suo torto sia considerato ragione». Come dargli torto?

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