E Jonathan Lethem si fa l'auto-Zibaldone

Fumetti e terrorismo, gossip letterari e graffiti: L'estasi dell'influenza è un Pantheon di feticci. Su cui lo scrittore ha costruito la propria carriera

E Jonathan Lethem si fa l'auto-Zibaldone

Maneggiare con cautela gli «anti-saggi». Volumi conturbanti come sirene allacciate allo scoglio che cantano stravaganza e libertà di pensiero, controtendenza, rivalutazione del cheap e del trash. Ci sono maestri in questo genere di rivoluzioni copernicane - uno è italiano e si chiama Walter Siti - e solenni bufale senza senso. L'estasi dell'influenza, ultima opera di Jonathan Lethem ad arrivare in Italia (sarà in libreria il prossimo 13 febbraio per Bompiani, pagg. 610, euro 23, traduzione di Gianni Pannofino) è uno di quegli anti-saggi che passa gli esami di ogni pregiudizio. Ora, che Lethem si attenesse al «kit del piccolo sovversivo» si era capito fin dagli esordi narrativi della metà degli anni Novanta, Concerto per archi e canguro (Tropea) e soprattutto Amnesia Moon (minimum fax), in cui l'ossessione per Philip K. Dick, Bruce Sterling e Samuel Delany si trasformava in una «creazione» frutto di un delirio onirico senza precedenti per originalità.
Tuttavia non era affatto detto che le formule a frattale di Chronic City (sempre tradotto dal «miracoloso» Pannofino per Il Saggiatore) risultassero geniali anche applicate a una raccolta di storie, saggi, meditazioni, polemiche e interviste come L'estasi dell'influenza. Perché dentro a questo volumone c'è proprio di tutto, un pantheon personale che «deve» essere così ricco perché, secondo Lethem, i feticci sono tutto, per un artista. E così, visto che ciò che ci influenza è tutto, vale parlare di tutto: i fumetti Marvel fanno collage con J.G. Ballard, John Cassavetes con Thomas Berger, Marlon Brando con l'11 settembre, Bob Dylan con papà Lethem che dipinge. Fino al gossip letterario. A esempio: al Bennington College negli anni Ottanta Lethem conosce Donna Tartt quanto basta per chiedersi: si sarà ispirata a me per il fattore ucciso in Dio di illusioni (Rizzoli)? Allo stesso college frequenta Bret Easton Ellis, con cui trascorse una notte decadente a Manhattan prima di svegliarsi con lui la mattina dell'11 settembre: una «star bambina» incapace di crescere, dice tra l'altro di Ellis. E sembra racchiudere tutto.
Insomma, una «Lethemania» della cultura contemporanea così citazionale e autobiografica da far risultare quelli di Jonathan Franzen dei «saggi di fine anno». I due sono come le rette parallele che non si incontrano mai e finalmente Lethem gira il coltello nella motivazione: se la generazione è più o meno la stessa e per un certo periodo di tempo pure gli occhiali e la messa in piega, tra loro corre una differenza sostanziale, oltre al numero di copie vendute. Quella tra l'Elefante Bianco e la Termite. Ovvero la differenza che Lethem illumina con L'estasi dell'influenza.
Codesta differenza - così incisiva che dopo aver letto il volume vi farà dire per qualche giorno agli amici: «Il mondo si divide in due: gli elefanti bianchi e le termiti...», altro che presepe e albero di Natale - si basa sul modo di fare Arte. Pagato a Manny Farber, nell'introduzione al volume, il debito creativo, Lethem applica così il modello Elefante/Termite: l'arte dell'Elefante Bianco è frutto di ambizione e autoreferenzialità, roba grande e grossa e goffa, pronta per «la stagione dei premi». L'arte della Termite è modesta, non ostenta, sta ai margini, pronta ad avanzare nella foresta della cultura attraverso le strade della curiosità, naturalmente immuni dal contagio del prestigio. Viene in mente la battuta di quel capolavoro sul costume americano che è la pièce Angels in America di Tony Kushner (lo sceneggiatore che ha messo, tra l'altro, le parole in bocca al Lincoln di Spielberg) in cui in un dialogo memorabile su morale e politica, Joe chiede a Louis: «Tu vuoi essere puro o efficace?».


Gli Elefanti di Lethem sono tra gli altri Saul Bellow, Joyce Carol Oates, Norman Mailer (Lethem ha confessato che uno dei possibili titoli di questa raccolta era «Pubblicità per Norman Mailer», a parafrasare Pubblicità per me stesso: Mailer è l'unico Elefante con un bonus, secondo Lethem, perché è di Brooklyn, come lui, e perché amava «i graffiti, i film underground, la marijuana e i viaggi spaziali»), John Updike, Thomas Pynchon. Non a caso accanto a ciascuno di questi Franzen si farebbe fotografare indicandolo col dito come nume tutelare.

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