Ecco la prima storia della Repubblica scritta da un liberale

Rivalutazione di De Gasperi, critica alla mancata modernizzazione degli anni '60, bocciatura del '68. L'esame di una "democrazia difficile"

Ecco la prima storia della Repubblica scritta da un liberale

La prima Repubblica (1946-1993). Storia di una democrazia difficile (Rubbettino, pagg. 356, euro 19) di Giuseppe Bedeschi, a breve in libreria, è un libro che lascerà il segno nella nostra political culture, per varie ragioni. Innanzitutto è l'opera documentata e pacata di uno storico della filosofia e del pensiero politico, autore di saggi - su Hegel, Marx, Tocqueville, la Scuola di Francoforte, la storia del liberalismo, gli intellettuali italiani etc. - che, con il passare del tempo, restano sempre riferimenti obbligati per gli studiosi; in secondo luogo, è un lavoro che mostra - se ce ne fosse stato ancora bisogno, dopo i grandi pensatori “anfibi” del Novecento che si muovevano a proprio agio tanto nel mare della filosofia quanto sulla terraferma della storia, da Benedetto Croce a Adolfo Omodeo - l'inconsistenza dei confini disciplinari e l'importanza decisiva del metodo con cui ci si accosta all'oggetto d'indagine; infine, ed è la ragione decisiva, questa è la prima, vera, storia «liberale» della Repubblica.

Certo, se si esaminano con attenzione i diversi capitoli del libro, vengono in mente talune, sia pur molto limitate, convergenze che accomunano Bedeschi ai diversi storici che hanno trattato lo stesso tema - da Giano Accame a Piero Craveri, da Silvio Lanaro a Paul Ginsborg, da Giuseppe Mammarella a Pietro Scoppola, per limitarci a questi. La decisa rivalutazione del centrismo e degli anni di De Gasperi non incontra più il dissenso unanime di tutta la storiografia accademica: se nessuno si azzarderebbe a definire eroica l'epoca del primo centrismo - «eroica per le decisioni epocali che allora furono prese, sia in campo economico sia in campo politico, ed eroica anche per l'assoluta dedizione al Paese e l'assoluto disinteresse personale che caratterizzarono lo stile di vita di De Gasperi e degli uomini che furono i suoi collaboratori più stretti» - c'è chi, come Salvatore Vassallo, riconosce «nella fase degasperiana le basi normative della ripresa economica».

Del pari, anche a sinistra, non manca qualche riconsiderazione critica della figura di Riccardo Lombardi che volle, fortissimamente volle, una nazionalizzazione dell'energia elettrica attuata come peggio non si sarebbe potuto. «Narra Nenni nei suoi Diari che il 14 febbraio 1962, nel corso di una riunione con Saragat, La Malfa, Reale, Lombardi e Moro (che aveva voluto portare con sé, come esperto, il prof. Pasquale Saraceno), lo stesso Saraceno sferrò “un attacco a fondo contro la progettata riforma. A suo giudizio duemila miliardi regalati agli elettrici, sottratti alla scuola e al mezzogiorno, il rischio di crolli in Borsa e di difficoltà monetarie” , sconsigliavano un'operazione così rovinosa». E va da sé che il rilievo posto da Bedeschi sulla mancata modernizzazione degli anni '60 - il centro-sinistra non realizzò nessun riformismo serio nei servizi sociali, nelle scuole, negli ospedali, nelle strutture che avrebbero dovuto accogliere la più grande immigrazione interna, da sud a nord, della storia nazionale - oggi è ampiamente condiviso dalla storiografia “progressista”.

Su altri punti, però, le distanze rimangono siderali: il giudizio decisamente negativo sul '68; quello durissimo su Berlinguer, riguardato come un nemico irriducibile della società aperta - «Berlinguer continuava ad avere come obiettivo strategico il superamento del capitalismo (sotto questo profilo egli conservava tutta la vecchia forma mentis marxista: in un colloquio con Ciriaco De Mita egli disse che per lui la proprietà privata era l'equivalente di quello che per i cristiani era il peccato originale)»; la giustificazione del fattore K che escludeva dal governo un Pci nemico delle socialdemocrazie europee; la rivalutazione di Craxi, che liquidò il tabù del “nessun nemico a sinistra” - una rivalutazione che non si nasconde né il contributo socialista al debito pubblico, né l'incomprensione delle possibilità offerte dal mutato quadro internazionale, dopo il crollo del muro di Berlino; e, infine, la decisa condanna di una filosofia sindacale, che univa le sinistre di governo a quelle di piazza - Bedeschi riporta, concordando, il rilievo dell'ex-governatore della Banca d'Italia Guido Carli, per il quale, nel biennio 1969-1971, «la massa dei lavoratori dell'industria, sia attraverso le contrattazioni nazionali che attraverso quelle integrative aziendali, conquistò sostanzialmente un salario di livello europeo», ma «con un ritmo d'aumento del costo del lavoro terribilmente superiore al ritmo europeo, con una produttività stagnante o discendente, e con una serie di normative sulla rigidità d'impiego della forza-lavoro quali non \ in nessun altro paese industriale».

Analisi controcorrente, giudizi coraggiosi, ribaltamento di luoghi comuni, però, non bastano ancora a definire la caratura liberale della storia raccontata da Bedeschi. A mio avviso, ciò che la differenzia nettamente da altre opere, anche da quelle maturate in clima revisionistico e riformistico, è il criterio di valutazione di uomini e partiti. Quello scelto da Bedeschi è il primato delle istituzioni, la garanzia delle libertà e dei “diritti soggettivi”, il rafforzamento delle autonomie delle sfere vitali che articolano la convivenza civile (economia, politica, diritto, religione etc.), il rispetto della legge e dell'ordine, il senso dello Stato e il culto delle procedure; quello scelto dalla storiografia non liberale è l'allargamento della base del regime politico, il primato della “partecipazione”, l'immissione delle masse nel Palazzo, senza alcuna preoccupazione per le strutture di accoglienza, ovvero per i canali (istituzionali) entro i quali far rifluire l'onda impetuosa dei sempre nuovi attori politici.

Emblematica, in tal senso, è la figura di Ferruccio Parri che, nell'analisi del suo biografo Luca Polese Remaggi, contrapponeva alla legalità fondata sul voto popolare, una legalità di ordine superiore intesa come progetto di trasformazione sociale, fondata sulla Costituzione antifascista. Apologeta, negli ultimi anni, della Cina maoista, Parri invitava a «non scambiare la difesa della libertà con la difesa del capitalismo» e si augurava un «piccolo terremoto politico» per sostituire alla concezione (nordamericana) della democrazia come registrazione di «un'assai complessa rete di interessi costituiti» una filosofia politica in grado di attuare la «riforma morale e civile della nazione».

Rievocando la polemica tra Parri e Croce sull'Italia prefascista, Bedeschi scrive che per il filosofo era fondamentale «il nesso libertà/democrazia, metodo liberale/avanzamento democratico», per Parri, invece, «l'accento cadeva esclusivamente sulla democrazia».
È forse questa la ragione profonda della strategia dell'attenzione messa in atto nei confronti di Beppe Grillo dalla sua progenie ideologica.

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