Meegan: "Le mie Americhe vissute un passo per volta"

Ha camminato sette anni dalla Patagonia all'Alaska e la sua avventura solitaria è diventata un libro. "Perché? Non avevo nessun talento ma soltanto un sogno"

Meegan: "Le mie Americhe vissute un passo per volta"


È l'ultimo erede del dottor Livingstone «l'africano», o del generoso e sfortunato Robert Scott, che mancò tragicamente la corsa al Polo Sud. Agli appassionati di cinema potrà far venire in mente Christopher McCandles, il vero protagonista di Into the Wild, o la splendida creatura immaginaria che è Forrest Gump. Ma allo stato dell'arte se c'è un recordman dello sport estremo questo è lui, George Meegan, 60 anni, di Hiddlington, ex ufficiale della Marina di sua Maestà britannica.

Meegan nel 1977 decise di tentare ciò che nessuno prima di lui aveva pensato. Un viaggio a piedi, senza nessun appoggio logistico (solo scarpe e un carrello per i bagagli), lungo tutto il continente americano, partendo dalla Terra del Fuoco e finendo in Alaska. Oltre 30mila chilometri. Meegan ha portato a termine l'impresa in sette anni e ha battuto almeno 5 record nel Guinness dei primati. E ha raccontato la storia in un libro, da poco pubblicato in Italia, La grande camminata. Dalla Patagonia all'Alaska in sette anni (Mursia, pagg. 464, euro 19). Un libro di viaggio con una storia editoriale complicata. Le seicento pagine di fitti appunti che il protagonista rifiutò di battere a macchina portarono gli editori inglesi a respingere il libro e negli Usa la pubblicazione arrivò in ritardo per il fallimento della casa editrice. Nel frattempo Meegan ha vissuto insegnando Scienze marittime all'università di Kobe, in Giappone, e attualmente vive in Alaska. Il Giornale lo ha incontrato nella sede milanese della sua casa editrice. Snello, mobilissimi occhi azzurri, incapace di star seduto per la durata del colloquio. «Per tutto il viaggio - dice - ho consumato 12 paia di scarpe e mezzo, nel senso che alla fine della camminata mi era rimasto uno stivale rotto e uno ancora intero». Sul polpaccio ha un tatuaggio blu. È l'itinerario che ha percorso.

Attualmente lei vive a Bethel, in Alaska. Come mai?
«Perché è alla fine della linea della civiltà. È un posto estremo. Non posso fare a meno di vivere a ridosso del limite, e cerco di fare quel che è possibile per difendere la lingua e le tradizioni di questa gente».

Quando è nata in lei la passione per l'esplorazione?
«A cinque anni andavo in un negozio nel Kent, con mia madre. Adoravo i libri con i racconti dei grandi esploratori inglesi. Volevo essere uno di loro, e ho dimostrato che si può. E sa qual è la cosa più importante?».

Ci dica...
«L'ho fatto senza avere alcun talento. Non sapevo fare niente di particolare, non sapevo nemmeno guidare un'auto, ma avevo un sogno. Ho dimostrato che si può realizzare un sogno senza avere né soldi, né un talento particolare».

E ha portato con sé la sua ragazza, appena conosciuta in Giappone, Yoshiko...
«Pensi che non avendo una lingua comune non ci si comprendeva bene. Aveva capito che avremmo fatto il viaggio in autobus. Dopo la prima mezz'ora di cammino, in Patagonia, tentò di picchiarmi. Una volta ci appartammo a baciarci sotto una pianta e un pazzo le puntò una pistola alla testa...».

Ma sua moglie, pur non partecipando a tutta l'impresa, la seguì per il tratto sudamericano, mise al mondo i suoi figli, e periodicamente la veniva a trovare, per strada, con la famiglia.
«Certo».

C'è stato un momento in cui ha pensato di non farcela?
«Parecchi. Ho avuto malattie, ho sofferto il caldo, il freddo, la sete. Consideri che l'esploratore che ho ammirato di più, Sebastian Snow, è impazzito. Una volta in Sud America un dottore mi disse: “o ti fermi o muori”. Decisi di prendere una pillola per dormire. Mai stato così sveglio in vita mia».

In epigrafe al libro c'è una frase di Claude Lévi-Strauss che parla del viaggio come esplorazione «del deserto della memoria». Cosa si prova a camminare con una distanza virtualmente infinita davanti e dietro?
«Il 90 per cento di ciò che ti viene in mente è memoria di cose lontanissime, il 5 per cento è senso della realtà, attenzione a ciò che ti circonda. Il resto è il senso della tua piccolezza, della tua insignificanza nel mondo».

Dopo sette anni di viaggio a piedi, dormendo in posti di fortuna, con pochissimo danaro, com'è stato tornare alla normalità?
«Non credo di essermi del tutto ripreso. Ricordo che tornai in Inghilterra, ma la mia casa era cambiata, non mi sentivo più in un ambiente familiare. Mia madre non ha mai capito il mio gesto. Tra l'altro morì senza vedere il libro pubblicato».

La sua esperienza cos'ha da insegnare?
«Il mio non è un gesto

comune, ma può insegnare a uscire dalle case, spegnere il computer, scendere dall'auto, entrare nella realtà delle cose, rischiare in proprio. In questo, sì, mi sento un erede della tradizione degli esploratori inglesi».

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