Fermor alla ricerca del viaggio perduto

The Broken Road, «La strada interrotta» (John Murray editore, pagg. 362, euro 43), è il terzo volume della trilogia che Patrick Leigh Fermor (1915-2011) dedicò al viaggio che, diciottenne, lo portò negli anni Trenta dall'Olanda alla Turchia. È un libro che l'autore non riuscì a finire, e che infatti esce ora postumo a cura di Colin Thubron e Artemis Cooper, curatori letterari di Fermor. La sua pubblicazione Oltremanica coincide singolarmente con l'uscita in Italia del secondo volume della serie, Fra i boschi e l'acqua (Adelphi, pagg. 290, euro 19), continuazione di quel Tempo di regali che fece di Fermor uno degli scrittori culto della cosiddetta narrativa di viaggio.
L'intera trilogia ebbe del resto una gestione travagliata che vale la pena ricapitolare. Fermor cominciò a lavorarci all'inizio degli anni Sessanta, pubblicò il primo, che abbracciava Germania, Austria e Cecoslovacchia, alla fine degli anni Settanta e il secondo, che comprendeva Ungheria, Romania e Bulgaria, un decennio dopo. Il terzo, resoconto dell'ultimo tratto, dalla Porte di Ferro romeno-bulgare alla capitale dell'ex impero ottomano, come già detto rimase incompiuto, cosa tanto più curiosa se si pensa che fu proprio quello a cui Fermor mise mano per primo, lasciandolo poi da parte in nome di una cronologia più classica, dove l'inizio cioè precede sempre la fine.
Questo manoscritto, che avrebbe voluto intitolare Parallax, la trasformazione che comporta il cambio di prospettiva, ma che l'editore, temendo fosse scambiato per un testo scientifico, modificò in A youthful Journey, «Un giovane viaggio», arrivò alle bozze di stampa: non licenziato, archiviato, poi considerato perduto, fu infine ritrovato e fatto avere all'autore quando questi tornò molti anni dopo, e invano, a lavorare sopra il testo originale, ed è quello che The Broken Road oggi presenta. A esso i curatori hanno aggiunto il Diario che Fermor tenne del suo soggiorno nei monasteri sul Monte Athos, dove arrivò dopo essersi fermato una decina di giorni a Costantinopoli, e dove si trattenne per un mese, il tempo di festeggiarvi il suo ventesimo compleanno. È un diario vero e proprio, quotidiano e non fatto di note impressionistiche, ma si sbaglierebbe a considerarlo un documento d'epoca e allo stato puro, perché anche intorno a esso il suo autore lavorò correggendo e riscrivendo, con quell'ossessione per la perfezione che alla fine si trasformerà in un vero e proprio blocco narrativo.
L'aspetto più interessante della trilogia sta del resto nel fatto che quando Fermor cominciò a scriverla, a così tanta distanza di tempo da quel viaggio picaresco, lo fece basandosi sulla memoria e non sui taccuini, le lettere e gli appunti scritti all'epoca: conservati in un deposito londinese, durante la Seconda guerra mondiale questi infatti erano andati distrutti. Una perdita, scriverà, «che ancora mi fa male. Come accade con le vecchie ferite quando cambia il tempo». L'unico documento superstite, il cosiddetto «Diario Verde», è quello conservato da Balasha Cantacuzene, il suo primo grande amore, la donna per la quale, alla fine del suo viaggio, sceglierà di restare in Romania e con la quale vivrà quattro anni, sino allo scoppio della guerra e al ritorno in patria per arruolarsi. Copriva tutto il viaggio dalle Porte di Ferro a Costantinopoli, con un appendice di disegni di amici, monumenti, paesaggi e costumi, indirizzi di tutti quelli che aveva conosciuto, liste di vocaboli in ungherese, romeno, bulgaro e greco. Fermor ne rientrò in possesso quando lavorava a A Youthful Journey, eppure non lo utilizzò, segno evidente che di là dal «dolore» legato alla perdita di taccuini e diari, la sua mente lavorava più nella memoria ricreata che in quella, come dire, trascritta...
Una delle ragioni del fascino di questi libri in fondo è proprio qui, nell'artificio naturale con cui egli racconta il suo se stesso di allora, di cui conserva la freschezza, ma prestandogli però le conoscenze, la cultura e l'uso di mondo di ciò che intanto era diventato, in un sottilissimo gioco di rimandi, faticosissimo nella sua elaborazione quanto esemplare nella sua resa stilistica. Una certa estetica della giovinezza del resto fu sempre presente in Fermor, ragazzo scapigliato e insofferente, espulso da tutte le scuole dove veniva iscritto, «una pericolosa mistura di imprudenza e doppiezza» come lo bollò il preside di una di esse. Anche l'idea di questo viaggio nel cuore del Vecchio continente, a piedi, «come un antico pellegrino», ne fa parte, audace azzardo di chi, non sapendo cosa fare nella vita, e non sapendo come far sbocciare una vena di scrittore che sentiva di avere, ma che non riusciva a venir fuori dal contatto con la quotidianità, aveva pensato che il modo migliore fosse quello di essere eternamente a contatto con il nuovo. Si badi bene, quando tutto ciò ha inizio, Patrick Leigh Fermor, Paddy per gli amici, aveva appena compiuto diciott'anni e, dopo qualche party scapigliato e qualche bisboccia di troppo, si era convinto che «ogni cosa fosse insopportabile, odiosa, stupida, inquietante. Disprezzavo tutti, cominciando e finendo con me stesso».
Il viaggio, dunque, è una sorta di ri-partenza e il suo atteggiamento verso la vita sarà quello «di una foca nei confronti dell'aringa che le viene lanciata». È anche questo a renderlo unico e a farne l'odissea sognata di ogni studente nomade, tanto più affascinante perché gli anni '30 in cui si svolge sono quelli di un'Europa che, sonnambula, sta andando verso la Seconda guerra mondiale.

Villaggi, contadini e biblioteche di città, castelli e fienili, aristocratici e zingari, amori estivi e notti passate sotto le stelle tracciano un quadro incantato dove, di tanto in tanto, ma come un'eco lontana, giunge il rumore sordo delle ideologie che si preparano a scannarsi in un conflitto che non contempla prigionieri e fa terra bruciata di tutto ciò che incontra. Di quel mondo narrato, dopo non resterà più traccia e l'atmosfera che lo avvolge è il giovane dono di una memoria felice.

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