A lla festa RCS per il compleanno del Piccolo Principe e Grom da Eataly che, complice il diluvio che ha invogliato tutti a restare nei pressi del Lingotto, è diventata sabato sera un parterre de roi - a sinistra Umberto Eco e Paolo Giordano, a destra Serena Dandini e Antonio Scurati, accanto al gelato Ivan Cotroneo e Concita De Gregorio, intorno alla fassona Andrea De Carlo e Beppe Severgnini, Elisabetta Sgarbi con Edoardo Nesi: qualunque lettore entrando sarebbe stato colto da un quarto d'ora di sindrome di Stendhal - oltre a bere e mangiare, gli editori riflettono.
Sabato e domenica le vendite sono andate benissimo. Secondo gli editori, si vendono i gialli svedesi, e del premio Pulitzer nemmeno una copia. Sono andati alla grande ZeroZeroZero di Saviano, Inferno di Dan Brown, La rivoluzione della luna di Camilleri, i saggi di Matteo Renzi e Walter Veltroni e i libri low cost di Newton Compton (trainati dal Grande Gatsby di Francis Fitzgerald, tornato sugli scudi grazie al film di Baz Luhrmann con Leo DiCaprio). Niente di sorprendente. Sintomo, peraltro comunque evidente, che ormai da anni il Salone è pop. Le masse che riempiono i padiglioni - quasi solo nel fine settimana -, sono entusiaste perché sanno che potranno intravedere non solo scrittori ma anche comici e cantanti prestati alla scrittura. Sono stimolate perché assisteranno all'ennesimo dibattito «contro», che sia di destra (quasi mai) o di sinistra (praticamente sempre): «Per fare audience bisogna sempre essere contro il potere», diceva Carlo Freccero proprio sabato in Sala Rossa. Oppure vengono trascinate dai professori agli incontri-laboratorio su vocabolario e grammatica, ma a quel punto si paralizzano: «C'erano un sacco di giovani stamattina» dice Walter Siti a proposito di «Disonestar», uno dei dieci eventi sui neologismi. «Certo, poi non hanno detto una parola», ha aggiunto con l'aria consapevolmente rassegnata di uno che ancora si ricorda quando i giovani, agli incontri «culturali», erano gli unici a prendere la parola, soprattutto perché avevano qualcosa da dire.
Essere pop è bello e utile. I bestseller, cartacei, digitali, umani, sono la linfa che tiene in piedi l'editoria, permette la pubblicazione di oscuri esordienti e classici dimenticati e, per i cinque giorni del Salone, aumenta lo sbigliettamento, che non è poco. Essere solo pop, però, è troppo facile e sterile. Non basta la notte bianca su Bolano per barrare la casella «letteratura di qualità» e mettersi la coscienza a posto. Certo, gli incontri con i «grandi» autori (dove il senso di «grandi» è a piacere) ci sono eccome, ma lo scambio con i lettori è inesistente (le sale vanno obbligatoriamente lasciate dopo un'ora: impossibile lo spazio per un «dibattito» anche minimo).
Forse sarebbe ora di «rinnovare la formula», come si dice. Il Salone è sotto pressione per la concorrenza potenziale del milanese Bookcity e certo non può permettersi di trasformarsi in un evento di élite, in cui gli scrittori parlano da scrittori, come agli assembramenti di Nazione Indiana, e non stanno lontano, su una cattedra-palco di una sala Rossa Gialla o Azzurra con l'aria condizionata sotto zero anche se fuori piove. Però il clima da «lectio magistralis più Crozza» che si respira a Torino forse non funziona più. I lettori portano a casa i libri e basta. Poche frasi ostiche (e dunque memorabili) restano loro nel cuore e nessun vero scambio con gli autori amati o odiati, nonostante iniziative lodevoli come il Salone Off. Quel che accade in quasi tutti gli incontri del Salone, insomma, accade ogni giorno nelle comuni presentazioni delle librerie ben organizzate di tutta Italia e perfino su Facebook o Twitter.
Prima che a qualche lettore guerrillero senza invito venga la tentazione di infiltrarsi alla prossima festa RCS per vedere davvero gli autori «da vicino», si potrebbe ripartire dal titolo del Salone di quest'anno: «Dove osano le idee». E trasformarlo in una domanda a cui rispondere.
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