La festa di "Trimalchio" che chiude l'età del jazz

Esce la prima versione del romanzo più celebre di Francis Scott Fitzgerald. Un'opera del tutto compiuta dove gli anni Venti sono ancora più ruggenti

La festa di "Trimalchio" che chiude l'età del jazz

Per gentile concessione dell'editore Mattioli 1885 pubblichiamo un ampio stralcio di Trimalchio di Francis Scott Fitzgerald (pagg. 188, euro 13,90; in uscita il 26 agosto). Trimalchio è la prima versione, perfettamente compiuta e inedita in Italia, del celebre Il grande Gatsby (1925), da cui differisce però in modo sostanziale.

Non so se fosse stato Tom, in cerca di nuovi modi per divertirsi, a portare lì Daisy, oppure Daisy a suggerirlo a Tom - fatto sta che si presentarono a casa di Gatsby il sabato sera seguente. La festa era un po' più sofisticata di quelle che l'avevano preceduta. Per esempio c'erano due orchestre; quella nel giardino suonava jazz, mentre quella sulla veranda si esibiva di tanto in tanto in «roba classica». Era stata organizzata una specie di danza del raccolto, con decorazioni antichissime - covoni di grano, rastrelli incrociati e pannocchie raffigurate con disegni geometrici. Sul pavimento fieno ammucchiato fino ad arrivare alle ginocchia e dentro un chiosco coperto di paglia un nero vestito da bracciante a servire il sidro, che nessuno voleva. Il vero bar si trovava fuori, sotto un mulino a vento le cui pale, costellate di luci colorate, ruotavano lentamente attraverso l'aria estiva.
Soltanto un terzo degli ospiti erano in costume, includendo i membri dell'orchestra vestiti da guardie campestri. Siccome anche la maggior parte degli altri erano vestiti da guardie, ogni tanto l'effetto era che i componenti dell'orchestra si alzassero e si mettessero a ballare con le signore presenti. Un'illusione che si aggiungeva alla piacevole confusione della scena. A chi si era presentato senza costume, venivano consegnati davanti alla porta cappelli di paglia e cappelli da donna a falde larghe.
Non amo molto le feste in maschera, ma in quanto vicino più prossimo collaborai infilandomi una salopette e truccandomi con una barbetta a punta. Il pizzetto continuò a finirmi in bocca per tutta la sera fino a quando finalmente me lo strappai di dosso con rabbia, levandomi - credo - anche un pezzo di mento. Ho una specie di fossetta nel mento, che mi ha sempre procurato problemi con la rasatura - ed era lì che si era andato a incastrare il pizzetto.
Tom aveva addosso un abito da sera, ma Daisy, avvolta in un attillato costume da contadina provenzale, era più bella che mai. I suoi occhi brillavano e la voce era piena di sfumature gioiose.
«È meraviglioso», sussurrò. «Mi eccitano così tanto queste cose. Se vuoi baciarmi in qualsiasi momento nel corso della serata, Nick, fammelo sapere e sarò felice di accontentarti. Basta che fai il mio nome. O mi presenti... o mi presenti un documento di permesso! Un bel documento...»
«Ero sicuro che ti sarebbe piaciuta», disse Gatsby, con gli occhi scintillanti di felicità. «Guardati attorno.»
«Lo so. È meraviglioso...»
«Intendo dire la gente», la interruppe. «Vedrai tante facce di persone di cui hai sentito parlare.»
Gli occhi di Tom vagavano qua e là tra gli ospiti.
«Ci daremo un'occhiata», disse. «A dire il vero, stavo pensando che non conosco anima viva qui.»
Gatsby lo fissò, prima incredulo e poi con pazienza.
«Intendo le loro foto», spiegò in modo più formale. «Per esempio lì c'è...»
A bassa voce cominciò un elenco dei nomi più di spicco.
«Ma sarà un privilegio presentarvi», disse. Mentre ci dirigevamo di fuori aggiunse, in tono rassicurante: «Sono persone assolutamente naturali e spontanee.»
Ci presentò gentilmente a ogni gruppo, fino a che Tom e Daisy non ebbero stretto la mano a chiunque si trovasse in giardino. Finalmente fummo presentati anche alla stelletta del cinema che avevo già visto a casa di Gatsby in precedenza. Era circondata da almeno una dozzina di uomini che da lontano sembravano amoreggiare in modo piuttosto indelicato con lei. Avvicinandosi, però, scoprimmo che quegli uomini erano gente del mondo del cinema, magari meno nota, e che il loro era un atteggiamento invece di marcato rispetto. Ondeggiavano verso di lei, non con passione, ma per timore di perdersi una delle battute che lei sfornava a raffica - e che loro applaudivano fra risate di spasso. Gatsby si fece strada in mezzo a questo reverente conciliabolo.
«La signora Buchanan...» disse facendo le presentazioni «e il signor Buchanan...» E, dopo un attimo di esitazione, aggiunse: «Il giocatore di polo.»
«Oh, no», si affrettò a dire Tom. «Non...»
Tuttavia il suono di quella frase doveva piacere particolarmente a Gatsby, e Tom rimase «il giocatore di polo» per il resto della visita.
«Non ho mai incontrato così tante celebrità!» Esclamò Daisy. «Mi è piaciuto quel tipo... Come si chiamava? Quello con quella specie di naso blu.»
«Augusto Waize», disse Gatsby. «Oh, è solo un piccolo produttore. Non fa più di un lavoro all'anno.»
«Beh, comunque mi ha colpita. Deve essere affascinante conoscerli tutti.»
«A loro piace venire qui», ammise Gatsby, «e anche a me fa piacere.»
«Comunque preferirei non passare per il giocatore di polo,» disse Tom educatamente. «Preferirei guardare tutte queste persone famose... in oblio».
La parola che intendeva dire era in realtà incognito, ma in ogni caso Gatsby ne fu sorpreso. Per lui dare un ruolo a Tom, farlo passare come celebrità in mezzo a tutte quelle altre celebrità, era stato come fargli un favore.
Daisy e Gatsby ballarono. Era la prima volta che vedevo il mio amico ballare. In modo formale, senza né grazia né imbarazzo, si esibì in un tipico foxtrot lungo la pedana. Avevano entrambi un fare molto solenne, come se stessero praticando una specie di rito - forse stavano pensando a qualche altra notte d'estate in cui avevano ballato insieme nei vecchi, tristi giorni struggenti della guerra. A un certo punto lei gli lanciò uno sguardo tale che mi spinse a guardarmi attorno per vedere se Tom stesse guardando. Ma quest'ultimo si stava divertendo, offrendo un cocktail a una ragazza al bar.
Quando la musica si fermò, Daisy e Gatsby si avvicinarono a me.
«Dov'è Tom?» Chiese lei. Poi lo vide. «Oh, beh, non vogliamo disturbarlo. Carina la ragazza, non è vero? Piuttosto comune, ma...»
Poi Daisy si fermò di colpo. Gatsby stava scrutando la gente in giardino.
«Ci sono diverse altre persone che voglio farti conoscere», disse, «ma uno di loro non è ancora arrivato.»
«Aspetteremo fino a che tutti arrivino», suggerì lei. «Lasceremo Nick qui nel caso ci sia un incendio o un'inondazione o qualsiasi altra cosa e ce ne andremo in giro. Ci avvertirai, Nick, nel caso ci sia un incendio o un'inondazione, o qualsiasi altra punizione di Dio? Abbiamo assicurato casa la scorsa settimana e mi ricordo che...»
Il clamore tumultuoso, quasi un prolungamento degli schiamazzi nervosi di New York, mi tranquillizzò, e mi sentii come a casa. E tuttavia mi sforzavo di immaginare che impressione si fosse fatta Daisy della festa, se fosse identica a quella che avevo avuto io a giugno due mesi prima. Sembrava meno bizzarra ora - sembrava un mondo a parte, con le proprie regole e le proprie maniere, delimitate da un muro che ne proteggeva anche l'autocompiacimento. Non era secondo a nessuno, quel mondo, perché nemmeno si poneva la domanda. Ma Daisy poteva osservarlo dalla sua sponda, singolare e piuttosto sinistra, di universo.
«Senti, Nick...» Era di nuovo accanto a me. «Ti dispiace se ci allontaniamo un po' e ci mettiamo sui gradini del tuo bungalow o qualunque cosa sia?»
«Tu e Tom?»
«No, io e Jay»
Non capiva mai quando uno faceva una battuta, tranne quando era lei stessa a farle - e a volte nemmeno in quei casi.
«È così rumoroso qui», mi spiegò, «e non riesco a sentire nulla. Ho pensato che magari sui gradini di casa tua potevamo parlare meglio... Ma che cosa sta strillando quella ragazza?»
«Deve aver bevuto troppo e ha una crisi isterica.»
«Oh!... Beh, noi ce ne andiamo sui tuoi gradini allora.»
Esitò. «Se Tom inizia a cercarmi su e giù per il giardino, vieni ad avvertirci, non è vero? Non vorrei che pensasse che stia facendo qualcosa di sbagliato.»
Mi strizzo l'occhio con fare solenne e scoppiai a ridere mentre si allontanava verso la casa.
Un'ora dopo Tom mi chiese distrattamente se avessi visto Daisy. Gli dissi di cercare dentro. Poi attraversai i due prati e li trovai seduti sui gradini al chiaro di luna.
«Nick», disse lei.
«Sì.»
«Stiamo discutendo, sai?»
«Oh, su che cosa?»
«Oh, vari argomenti», rispose vagamente. «Per esempio sul futuro - il futuro della razza nera. La mia teoria è che dobbiamo sbarazzarcene.»
«Non sai quello che vuoi», disse Gatsby all'improvviso.
Daisy non rispose. Senza fretta ci incamminammo verso la festa, attraversando il prato buio e raggiungendo i1 baccano. Poi Daisy e io danzammo. Gatsby fece un giro completo del giardino, parlò a diverse persone qua e là, e poi rimase solo per un po' al suo solito posto sui gradini.


«Pensi che stia facendo un errore?» Mi chiese Daisy, gettando la testa all'indietro e guardandomi in faccia.
«Non capisco.»
«Beh, ho intenzione di lasciare Tom.»

© Mattioli 1885
A cura di Nicola Manuppelli

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