
Molte cose riescono bene solo agli americani, come il passaggio dal cinema alla letteratura: da noi è un salto della quaglia che genera pessima narrativa, negli Stati Uniti uno sceneggiatore come Noah Hawley (autore della serie televisiva Bones) scrive Un bravo padre (Mondadori, pagg. 322, euro 18), un romanzo da far invidia a Roth o DeLillo. Con la capacità di mischiare elementi pop a una grande sapienza narrativa, a cominciare dal fatto che il protagonista, Paul Allen, è un diagnosta. Tuttavia, a differenza di Doctor House, è una persona normale, con un figlio che un giorno, apprende dal notiziario, ha sparato al candidato della presidenza degli Usa, uccidendolo.
Se House era uno Sherlock Holmes trasferito alla diagnostica, Hawley compie il percorso inverso: il diagnosta deve farsi investigatore per poter scagionare il figlio, nonostante le prove schiaccianti, i video, i giornalisti, l'Fbi, l'isolamento dei colleghi d'ospedale. L'intero romanzo è non solo la complicata odissea di un padre disperato alla ricerca di indizi per far cadere l'accusa, ma anche una malinconica analisi sul ruolo e sul significato della paternità come solo gli americani sanno fare, senza diventare patetici. Paul Allen è il narratore di un'autopsia fisica senza metafisica, e senza per questo aggirare lo strazio dei sentimenti, la sofferenza dell'amore. Arrivando perfino a ipotizzare una malattia genetica che possa aver compromesso le facoltà mentali del futuro attentatore. Insomma, mentre i nostri ammuffiti letterati sono rimasti piantati a Platone, Cartesio, e il massimo dell'up-to-date filosofico è una citazione di Zygmunt Bauman, quelli americani fanno sempre più uso della letteratura scientifica, come ogni scrittore serio dovrebbe fare.
Così Paul è un bravo padre ma anche un bravo uomo di scienza, e «da bravo uomo di scienza sapevo che ciò che chiamiamo personalità è in realtà una combinazione di fattori fisici e psichici. Siamo guidati dagli ormoni, dalla genetica. Siamo il prodotto del nostro complesso chimico - troppa poca dopamina e si cade in depressione, troppa e si rischia di diventare schizofrenici. Ecco perché se dovevo comprendere le scelte di Daniel dovevo accettare l'ipotesi che alcune di quelle scelte potessero essere state fatte suo malgrado - che fosse insieme una vittima della biologia e un attore indipendente che fruiva del proprio arbitrio».
Se leggessero romanzi e non li scrivessero come Carofiglio, lo consiglierei anche a molti Pubblici Ministeri italiani, perché «le scorciatoie possono essere pericolose. Ecco perché la diagnostica è una procedura così insidiosa. Se si rimane troppo ancorati ai fatti si rischia di non avere lo slancio immaginativo necessario a individuare la malattia di fondo. Ma se ci si lascia guidare troppo dall'intuito si potrebbero sottovalutare dati importanti». Certo, mancano Cameron, Foreman, Chase e Tredici, ma Allen regge la scena dalla prima all'ultima parola. È un House umanizzato, in bilico tra ragione e sentimento, che tiene famiglia e si ritrova catapultato in un thriller con Harrison Ford.
Infine il risvolto di copertina ci informa che il bravo Noah Hawley, insieme a Dave Eggers, ha fondato «826 Valencia», «un programma di sostegno per insegnanti e studenti tra i 6 e i 18 anni». Mah, altre cose che hanno un senso solo negli Stati Uniti. E però potrebbero venire in Italia e fondarne un altro per scrittori e critici dai 18 agli 80.
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