Ivan Il'ic non avrebbe mai potuto fare un'opera sulla propria morte, ci voleva Tolstoj, così come Malone poteva descrivere la propria agonia solo grazie a Samuel Beckett, e Gustav Von Aschenbach poteva morire decadentisticamente a Venezia solo grazie a Thomas Mann. Stessa cosa per l'Everyman di Philip Roth, o per il protagonista della Storia di un corpo, l'ultimo romanzo di Daniel Pennac. Forse perché già scrivere è «un suicidio differito», secondo una bella definizione di Emil Cioran, il quale ha sempre scritto di morte, squartamenti e estinzioni ma, come Beckett e Tolstoj, ha poi avuto la fortuna di vivere a lungo, e la vecchiaia in qualche modo anestetizza l'esistenza, sottraendoci la vita giorno dopo giorno.
Ecco perché in pochi hanno saputo scrivere il diario di una malattia improvvisa, incurabile, terminale, non al punto da farne un'opera. Oriana Fallaci ne fece un teatro giornalistico, una specie di show, una lunga intervista con se stessa. Diverso è il suicidio: Il mestiere di vivere di Cesare Pavese ci porta dritti fino alla morte dell'autore («Non parole. Un gesto. Non scriverò più»), e così i diari di Guido Morselli, che mantengono un rigore stilistico impeccabile fino alla fine, finché l'autore non si spara con una Browning calibro 7 e 65, «la ragazza dall'occhio nero».
Ma il suicidio da sani non è la condanna di una malattia terminale, è un atto volontario, e la sua pianificazione letteraria lascia aperta la possibilità di un ripensamento: perfino Leopardi ha meditato il suicidio, ma nel suo cosiddetto «pessimismo cosmico» (la denominazione religiosa del realismo) invece è morto a Napoli, di colera, mangiando un gelato.
Negli anni in cui l'Aids mieteva vittime all'ordine del giorno, tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio dei Novanta, uscirono molti diari di morte: in Italia il tutto sommato melenso e patetico Il male di Dario Bellezza, senza alcuna colpa di Bellezza, perché è difficile morire e mantenere la lucidità e lo stile e non rendere la propria scrittura una lagna, un lamento, un grido d'aiuto. D'altra parte era un poeta, quindi lagnosetto lo era pure quando stava bene.
Invece l'unico grande scrittore che io ricordi capace di un'impresa estrema è stato il francese Hervé Guibert, morto di Aids a soli trentasei anni: Le regole della pietà, All'amico che non mi ha salvato la vita e Citomegalovirus (diario d'ospedale) sono dei capolavori della letteratura scritta sulla propria pelle, sul proprio corpo. Volendo c'è perfino un film, un'auto-docufiction dell'agonia finale intitolato La pudeur ou L'impudeur, che si può acquistare in DVD e di cui potete trovare dei frammenti su Youtube.
Alla bibliografia della morte si può aggiungere l'appena pubblicato Mortalità (Piemme, pagg. 99, euro 12), l'ultimo libro di Christopher Hitchens, morto il 15 dicembre dello scorso anno per un devastante cancro all'esofago. È un diario breve, essenziale, in parte pubblicato in presa diretta su Vanity Fair, e sfrondato da ogni orpello retorico, vittimistico, consolatorio. Non è un libro pessimista, molto peggio, come non era pessimista Leopardi (sono gli altri, gli illusi, a essere irrazionalmente ottimisti). È un libro realista, è come il Gregor Samsa di Kafka che si sveglia una mattina metamorfosato in uno scarafaggio ma qui non c'è metafora, la trasfigurazione è la realtà. Un risveglio con i polmoni come riempiti di cemento a presa rapida, il cuore improvvisamente rallentato, gli infermieri del 911 che fanno irruzione nell'albergo «per una deportazione ferma e gentile oltre il desolato confine della terra della malattia». Una terra da Christopher battezzata Tumortown, affrontata da Hitchens con la stessa vulcanica determinazione con cui ha affrontato la vita, senza reti di protezione. Un corpo a corpo con se stesso «nel brutale mondo fisico», perdendo i capelli, la sessualità, l'appetito, la speranza di vedere i propri figli sposati, e anche quella di «scrivere i necrologi di vecchie canaglie come Henry Kissinger e Joseph Ratzinger». E senza mai perdere il coraggio di andare fino in fondo, avendolo già toccato, il fondo, e non potendolo più risalire. Potendo solo confutare in prima persona non solo la misera consolazione della religione, sempre combattuta insieme agli amici Richard Dawkins e Ian McEwan, ma perfino il pensiero di Nietzsche, per il quale «ciò che non uccide fortifica», un intero capitolo per dire che non è vero, Nietzsche si sbagliava: ciò che non uccide ti uccide lentamente, ogni giorno di più. È vero per tutte le cose, è la seconda legge della termodinamica, vale tragicamente anche per l'uomo.
«Alla stupida domanda perché io? l'universo si prende a malapena il disturbo di replicare: perché no?» scrive Hitchens. Forse in un eccesso di salvifico egocentrismo, perché l'universo non si prende neppure questo disturbo, è completamente indifferente. Qui sarebbe stata più efficace l'immagine di Paul Valéry: quando noi guardiamo le stelle, le stelle sembrano dirci «Tu o un altro, a noi che ci importa». In realtà non ci dicono neppure quello.
Quando incontrava gli amici Hitchens gli diceva senza giri di parole che aveva un tumore al quarto stadio e «il problema del quarto stadio è che non ne esiste un quinto». Senza credenze e comodini dell'anima che non c'è, senza medicine tanto alternative quanto illusorie, «il brutale mondo fisico» è tutto ciò da cui rifugge la televisione, la vita, la nostra quotidianità. Le persone restavano interdette, imbarazzate di fronte a chi ti sbatte in faccia la propria morte, la verità della vita.
E infatti un'altra verità è che libri come questo di Hitchens non servono a niente: i sani li rifuggono, i malati non vi troveranno nessuna consolazione. E va messo nel pantheon dei grandi libri per questo: perché solo pochi hanno il fegato, e pardon, anche le palle, di scriverli.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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