«Ironia e pietà riscattano dal dolore E questo ci salva»

«Ironia e pietà riscattano dal dolore E questo ci salva»

La scena è buia, la luce fioca, le pareti grigie. Così l'atmosfera - accentuata da stralci di musica distorta e dal brancolare d'una donna chiaramente alterata - ha un tono manicomiale. Verrebbe da chiedersi: in tempi di crisi nera e con la necessità - dicono - di trovare un po' di luce almeno quando si va a teatro, cosa può spingere un pubblico teso ed emozionato ad affollare tutte le sere il Piccolo Eliseo di Roma (e, prevedibilmente, dall'8 gennaio anche il Parenti di Milano) per uno spettacolo così poco confortante - a partire dal titolo - come Il soccombente? Semplice: l'alta scrittura di Thomas Bernhard (ridotta da Ruggero Cappuccio). E l'eccellente interpretazione di Roberto Herlitzka (diretto da Nadia Baldi).
Signor Herlitzka: per questa storia della «impossibile» amicizia fra tre pianisti - il geniale Glen Gould, e i mediocri colleghi Wertheimer e il Narratore - tutte le sere il pienone. Nonostante la tetra full immersion in un pessimismo senza scampo. Come se lo spiega?
«È vero. Raccontando di come i due amici mediocri siano, tuttavia, abbastanza talentuosi per rendersi conto della siderale distanza che li separa dal genio di Gould, Bernhard esprime un autentico malumore cosmico. Ma lo fa anche con ironia. Sembra che dica: “La vedo nera. Ma, in fondo, non la penso sempre così”. E il pubblico sta al gioco. Non si spaventa. Anzi: si diverte».
Nonostante la mancanza di speranza, il pubblico esce da Il soccombente tutt'altro che depresso.
«Sì, perché oltre l'ironia, c'è un altro elemento - che l'autore accuratamente mimetizza ma non fino al punto di annullarlo del tutto - che riscalda il cuore. Ed è la pietà. Bernhard ha pietà di quei due poveretti. Anzi tre: perché lo stesso Gould, con tutto il suo genio, non è affatto un uomo felice. È proprio il suo genio, la distanza dai comuni mortali, e il disprezzo che ne segue, ad isolarlo dal calore dei sentimenti. Così perfetto, così tormentato».
Nonostante i protagonisti siano tre, in scena (a parte Marina Sorrenti) c'è solo lei. Che parla, si dispera e ironizza per un'ora e venti.
«Venendo a trovarmi in camerino i colleghi sospirano “Sarai distrutto”. “Veramente sto benissimo”, replico io. Il fatto è che monologhi-fiume ne faccio da vent'anni. Figurarsi: ho fatto tutto l'Amleto da solo, recitando solo le battute del principe di Danimarca! Ci sono attori fatti per recitare in mezzo ad altri venti. E attori a proprio agio nella completa solitudine. A quel punto non “partecipi” semplicemente ad uno spettacolo. “Sei” lo spettacolo. Ma non è questione di vanità. Solo di personalità».
Ma come regge la tensione di un testo che, oltretutto, richiede una fortissima concentrazione emotiva?
«Posso dirlo molto banalmente? Ho sempre paura di dimenticare qualche battuta. E poi una paura ancora più grande: di non essere all'altezza della prova. Ma in questo è il pubblico, che mi soccorre. “Sento” la sua attenzione. Mi dà forza. Concludendo: Il soccombente è una fatica che non mi affatica».
Gli spettacoli-monologo sono in aumento. Come mai?
«Costano poco. Sarà volgare dirlo, ma è così. E poi mancano testi nuovi che diano “sicurezza” a produttori e distributori. Così si ricorre a firme autorevoli trasformando racconti o romanzi in monologhi scenici».
Uno spettacolo su Gould senza neppure una nota suonata da Gould. Non è strano?
«Sì. E all'inizio, su questa scelta della regista, non ero d'accordo neppure io. Poi piano piano ho capito: le esecuzioni di Gould, come le celebri Variazioni Goldberg (mitiche variazioni su un tema per clavicembalo di Bach) sono talmente, matematicamente perfette, che forse avrebbero finito per “raggelare” un'atmosfera che, invece, doveva risultare molto più emotiva».
Gli spettatori la ricordano nei panni di Aldo Moro, in Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, per cui vinse il David di Donatello e il Nastro d'Argento. A quando il suo ritorno al cinema?
«Presto. Almeno spero.

Col film di un esordiente, Giuseppe Gandini, Un uomo pacifico. Dico “spero” perché anche quest'operazione non poggia su alcun elemento di richiamo commerciale. E, soprattutto di questi tempi, non è facilissimo fare arte senza tener conto anche del mercato».

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