Jacques Vergès, l’avvocato che fa la tara alla giustizia

Jacques Vergès, l’avvocato che fa la tara alla giustizia

A noi, che da vent’anni assistiamo all’irresistibile avanzata dei pubblici ministeri, farà bene leggere le pagine scritte da Jacques Vergès. Classe 1925, studi alla Sorbona e una vita avventurosa che riempirebbe un’enciclopedia, è la dimostrazione che anche l’avvocato, come il magistrato, ha davanti a sé territori inesplorati, che può percorrere fino a raggiungere risultati sorprendenti. E può far diventare l’aula del processo l’altoparlante di un uomo, più di tutto un Paese. L’avvocato come tecnico del diritto, dunque, ma anche qualcosa in più, con quel quid capace di calamitare l’opinione pubblica e di farle scoprire un mondo che prima non conosceva. In questo caso il dramma degli algerini in lotta per l’indipendenza.
Siamo negli anni Cinquanta e Vergès è un brillante uomo di legge, forgiato dagli studi in storia, filosofia, lingue orientali e dall’aver militato, dal 1942, nella Resistenza all’invasore tedesco. Ora è membro del partito comunista, anche se ha addosso l’inquietudine dell’eretico, e s’infervora immediatamente quando gli propongono di difendere gli algerini che combattono e vengono repressi col pugno di ferro da Parigi. Omicidi, esecuzioni brutali, stupri: ad Algeri, a Orano e nelle altre città del Paese accade di tutto. Il compito degli avvocati è portare il rispetto del diritto e dei diritti umani nei tribunali che giudicano quei presunti terroristi e nello stesso tempo far scoprire ai francesi cosa sta accadendo dall’altra parte del mare.
Un compito difficilissimo. Anche perché alcuni colleghi di Vergès vengono ammazzati senza tanti complimenti: Parigi, dietro le quinte, conduce una guerra sporca. Sì, siamo in guerra, anche se il conflitto non è dichiarato e non a caso il libro s’intitola Quant’erano belle le mie guerre! (Liberilibri, pagg. 180, euro 16). E quant’erano pericolose. «Dovevamo pranzare insieme, noi avvocati del collettivo - racconta oggi il vegliardo - per preparare il processo dell’indomani. T’aspettammo. Non venisti». Amokrane, uno dei penalisti del collettivo, arabo a differenza di Vergès, è stato ucciso. «Nel pomeriggio, all’udienza, osservammo un minuto di silenzio in tua memoria. I magistrati rimasero seduti. “Non è il primo arabo che muore”, ci disse il presidente. Sottinteso: “Se dovessimo alzarci per ogni algerino ucciso, finiremmo col vivere in piedi”». Meglio restare seduti, ma Vergès e i suoi colleghi non mollano. Anche se pure loro sono i bersagli dei Servizi speciali del colonnello Raymond Muelle che hanno attribuito ad Amokrane il numero 1 e a Vergès il 2. E quando i parà scoprono il nascondiglio di uno dei capi del Fronte di liberazione nazionale, Ali la Pointe, e lo fanno saltare in aria insieme ad un bambino - episodio che gli italiani conoscono attraverso le immagini del film di Gillo Pontecorvo La battaglia di Algeri - sul cadavere di Ali viene trovato un appunto più che sospetto: «Jacques Vergès = fratello Mansour». Il ministro Robert Lacoste, zelante, trasmette immediatamente una fotocopia di quella pagina al presidente degli avvocati di Parigi. E Vergès viene chiamato, ma non si lascia impressionare: «Preferisco essere considerato un fratello di Ali la Pointe, anche se non ci siamo mai incontrati, piuttosto che un amico del signor Lacoste».
Non è detto, naturalmente, che un penalista debba sposare scelte così estreme, ma forse una simile esperienza totalizzante ci aiuta a capire come possa essere lungo, pur nel rispetto delle regole, il guinzaglio dell’avvocato che, invece, tante volte si accorcia, si accorcia sempre più e viene manovrato come un telecomando a piacimento delle procure. Tant’è che nella Milano degli anni Novanta, di Di Pietro e di Mani pulite, fu coniata un’espressione che riassumeva lo svilimento e il declino di una professione: l’avvocato accompagnatore.
Vergès non accompagna, fa il proprio lavoro fino in fondo. Così, quando scopre che due giudici si stanno sbronzando in un caffè di fronte al tribunale in compagnia di un uomo legato al controterrorismo, decide di intervenire a gamba tesa e di chiedere che i due magistrati lascino quel processo. Insomma, li ricusa. «Noi crediamo - grida in aula - che almeno durante lo svolgimento di questo processo, i giudici militari dovrebbero avere il buongusto d’evitarci questo spettacolo poco edificante, di farsi vedere in compagnia di qualcuno che appartiene a una organizzazione che è stata sciolta per istigazione all’omicidio».
Allo stesso modo tenta di trasformare «il tribunale in baraccone da tiro a segno e il processo in una fiera», escogitando una trappola di tipo linguistico: «Uno degli accusati, Aliane, fece sapere che lui capiva e parlava solo l’arabo letterario; di conseguenza non poteva capire l’interprete, il quale conosceva solo il dialetto». L’offensiva procedurale ha successo, le udienze s’impantanano in estenuanti discussioni dal retrogusto comico, il tribunale perde credibilità e finisce con l’apparire ridicolo. La stampa, contraria alle difese, chiede allora giudici di polso, ma in questo modo le udienze diventano un problema nazionale e Vergès riesce ancora una volta a bucare la cortina del silenzio e dell’indifferenza.

Nel 1962 l’Algeria è indipendente, anche se poi quegli ideali verranno traditi. Vergès, invece, assumerà difese sempre più scomode, come quelle di Klaus Barbie, il «macellaio» di Lione, del terrorista Carlos e di Milosevic. E diventerà per tutti l’avvocato dei cattivi.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
ilGiornale.it Logo Ricarica