La classica definizione dell'uomo come «animale razionale» è risibile. Non perché l'uomo, che l'abate Galiani definiva «animale assurdo», non sia razionale ma perché la razionalità si basa sul tragico e ancor più sul comico che caratterizzano al meglio la condizione umana. Porfirio nel suo Isagoge, proponendo una fortunatissima sintesi della logica di Aristotele, accantona la formula aristotelica secondo cui «proprio dell'uomo è l'esser capace di apprendere la grammatica» e la riformula dicendo che «il riso è il proprio dell'uomo». Proprio così. Ciò che contraddistingue l'uomo è il riso per cui l'homo sapiens è homo ridens e, infatti, il filosofo greco ne Sulle parti degli animali osserva che «nessun animale ride, salvo l'uomo». Il riso, si direbbe, è cosa seria perché mostra come siano diverse la scienza e la vita. Lo spirito è spiritoso. Per quanto possa essere piccolo o frivolo, quello della barzelletta è pur sempre un mondo con un suo senso compiuto che funziona in modo diverso da come funziona un computer, una macchina, una cronologia.
Qualche anno fa pubblicai un libretto intitolato Della barzelletta che, sulla scia di Isaiah Berlin, mostrava come la chiave che ci consente di accedere al mondo di una barzelletta - ma anche della preghiera o della poesia o dell'azione politica - è diversa dal «sapere che» Napoleone morì il 5 maggio 1821 o dal sapere che i canguri sono in Australia o dal «sapere come» funziona la logica binaria o dal sapere come si gioca una schedina. Una barzelletta ci mette in relazione con la nostra esperienza della vita perché, come disse una volta Vito Molinaro parlando di Gino Bramieri, «Dio creò prima l'uomo, poi la donna, e poi il comico». Oggi sul tema del riso è ritornato Andrea Tagliapietra con un buon volumetto: Non ci resta che ridere (il Mulino, pagg. 152, euro 12).
Ridere significa trascende la realtà. La logica risibile destabilizza l'ordine costituito. Il riso è prezioso e pericoloso. Si può ridere di tutto, nota Tagliapietra: della vita e della morte, del sacro e del profano, del nobile e del volgare. In questo senso il serioso «politically correct non appartiene certo all'essenza del riso». Nell'antichità il riso è soprattutto divino e gli dèi ridono fra loro e degli uomini i quali quando ridono partecipano del «divino». Nel Medioevo il riso diventa diabolico e deturpa il volto. Ne Il nome della rosa, quando frate Guglielmo cita Aristotele dicendo che il riso è «proprio» dell'uomo, il venerabile Jorge, che censura lo scritto aristotelico sulla commedia, lo zittisce dicendo che nelle Scritture non si ride. Ma sia che ridano gli dèi, sia che rida il diavolo, la risata è qualcosa di trascendente che traduce in chiave simbolica «la forza desituante e destabilizzante del riso». Con il tramonto della trascendenza l'uomo per ridere inventa la serietà e nel contrasto tra serio e leggero l'uomo moderno non ride né con gli dèi né col diavolo ma ride di se stesso. L'esperienza del riso diventa ripetitiva e banale. È «l'epoca della massa ridente».
Gli italiani oggi non sanno più ridere. Silvio Berlusconi è tra i pochissimi che fanno uso di ironia e non ha disprezzato l'arte popolare della barzelletta, mentre a sinistra pur di contrastarlo ci si è sfogati «mediante l'opposizione indiretta dei comici» e il riso è diventato derisione con l'intenzione «non di ridere ma di far male». Ne ha fatte le spese la satira che ideologizzando se stessa ha perso leggerezza, spontaneità e la capacità di mostrare la parte ridicola del potere.
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