In lode del profitto (e delle imprese)

Iniziativa, capacità e intraprendenza sono i pilastri delle società libere. E vittime designate del tassatore demagogo

«Il profitto, ossia il guadagno ottenuto oltre ciò che si reputa “equo” compenso al capitale, è considerato con occhio avverso, quasi fosse un furto». Questa è la premessa di In lode del profitto di Luigi Einaudi. Ne pubblichiamo uno stralcio come seguito ideale all'inedito di Von Mises su quanto sia stupido disprezzare ricchezza e mercato (uscito martedì in edicola). A testimonianza che anche in Italia il pensiero liberale ha offerto anticorpi al conformismo delle idee correnti.

L’idea nasce da uns en­timento: quello del­l’odio verso le ecce­denze. L’odio è pro­prio dell’uomo che non ama il ri­schio, che si contenta di redditi de­terminati e sicuri, e crede che guada­gnar di più del normale sia, per defi­nizione, il male, sia la rapina, sia l’ar­ricchimento indebito. Può darsi che la rapina ci sia quando l’ecce­denza è frutto di monopolio, di privi­legiodisussidiofavoriovincolilegi­slativi. In questi casi però importa impedire la nascita del reddito me­desimo, non delle sole eccedenze. Ma se il reddito è dovuto alla iniziati­va, alla capacità, alla intraprenden­za, la tassazione delle eccedenze è veramente cosa barocca e stupida. Dobbiamo forse, in omaggio al demagogo tassatore, dire: se tu im­prenditore ti limiti ad organizzare i fattori produttivi così da ottenere, con l’investimento di un miliardo di lire, appena 60 milioni di reddito netto, tu sarai, come imprenditore, salvo dal tributo speciale che io, far­neticando, ho inventato. Ma se tu sei capace di ottenere dallo stesso miliardo un frutto netto di 80 milio­ni, pagherai sull’eccedenza di 20mi­lioni oltre i 60, un’imposta di 2 milio­ni; se otterrai 90 milioni, pagherai il 10 per cento sui primi 20 milioni di eccedenzae il 20 per cento sugli ulte­riori 10 milioni; e, così via via cre­scendo, quanto più utilizzerai bene i tuoi impianti, i tuoi lavoratori, la tua organizzazione commerciale, tanto più gravemente sarai tassato. Non si viola,con metodi dettati dal­l’odio sciocco contro il successo, sol­tanto la legge cosmica universale del minimo mezzo, si offendono i criteri comuni del buon senso; si premiano gli inetti e si multano i ca­paci, i valorosi, gli intraprendenti.

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Sì; si può immaginare una socie­tà in cui nessuno corra rischi; in cui siano aboliti professionisti liberi, ar­tigiani indipendenti, imprenditori incercadiprofitto. Abbiamointem­pi moderni conosciuta quella socie­tà, ed essa ha posseduto e possiede una ideologia. Gli uomini si sono chiamati Mussolini, Hitler, Stalin; l’ideologia ha assunto diversi nomi, ma tutti si riassumono in una for­mula: il tiranno conosce e, co­noscendola, afferma la veri­tà, laveritàvera, quellaveri­tà a cui tutti devono rende­re omaggio. Non v’ha dubbio. Il tiranno, a mezzo dei suoi funzio­nari può assicurare la vi­ta a tutti, può abolire l’in­certezza, può attenuare le variazioni del reddi­to, facendone gravare l’onere su tutti, eccetto sui suoi privilegiati; può sostituire ai professionisti liberi, agli artigiani e lavora­toriindipendenti, agliimpren­ditori in cerca di profitto, i suoi servitori, i suoi letterati, i suoi scienziati, i suoi dirigenti nel­la banca, nell’industria,nel­l’agricoltura, può renderseli affezionati asse­gnando ad essi quote elevate del prodotto sociale totale; ma la sua non può non essere se non una ti­rannia, livida e lurida tirannia, de­sti­nata alla lunga alla morte del pen­siero ed alla rovina della società in­tera.

L’alternativa è chiara. Gli ono­rari liberamente pattuiti e pagati in compenso di un servizio eventual­mente reso dal professionista, i gua­dagni incerti degli artigiani e dei commercianti, ed i profitti aleatori degli imprenditori debbono conti­nuare ad esistere, se il sistema eco­nomico voglia serbarsi elastico, at­to a subire l’urto delle variazioni continue della tecnica, delle inven­zioni industriali; se si vuole che la società umana muti e cresca. Il pro­fitto è il prezzo che si deve pagare perché il pensiero possa libera­mente avanzare alla conquista del­la verità, perché gli innovatori met­tano alla prova le loro scoperte, per­ché gli uomini intraprendenti pos­sano continuamente rompere la frontiera del noto, del già sperimen­tato, e muovere verso l’ignoto,ver­so il mondo ancora aperto all’avan­zamento materiale e morale del­l’umanità. Il profitto può essere abolito; è possibile abolire le crisi e le variazioni economiche; ma dob­biamo incaricare qualcuno di com­piere il lavoro che oggi è ancora in gran parte ufficio dei professionisti e degli artisti liberi, degli artigiani indipendenti, degli imprenditori li­beri. Al ceto mobile e vario degli im­prenditori noi possiamo sostituire l’esercito dei funzionari dirigenti, dei regolatori del piano, degli ordinatori di quel che si deve produrre e consumare. Facciamolo; ma ri­cordiamo che, così deliberando, d’un tratto per atto di volontà rivo­luzionaria, o per lento pigro con­senso dato a predicazioni che si di­cono avanzate e coraggiose e sono brutta e frusta eredità del passato, noi avremo creato un regime tiran­nico; e ricordiamo anche che in nes­sun­a epoca storica è esistita una ti­rannia tanto piena e tanto perfetta come quella alla quale, volontaria­mente o inavvertitamente, ci stia­mo avviando. Nemmeno nella Ro­ma postdiocleziana, l’irrigidimen­to della società economica giunse al punto, al quale, sorpassando con leggerezza indicibile il punto critico, la avviano i dirigenti, i muni­cipalizzatori, i nazionalizzatori, gli statizzatori, i socializzatori d’oggi. Eppure, l’irrigidimento imperfetto della società romana della deca­denza fu una delle cause della rovi­na dello Stato.

I barbari germanici non durarono fatica ad abbattere il colosso. Sembrava ancora vivo; ma le sue membra, regolate e lega­te e vincolate dallo Stato onnipoten­te ed onnipresente, più non erano in grado di combattere.

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