Luchino, Marcello e gli altri Che amici quelli di d'Amico

Il giardinaggio con Visconti, i bagni con Mastroianni, il tennis con Bassani: nei ricordi "di famiglia" del critico teatrale c’è mezza cultura italiana dal dopoguerra agli anni ’70

Luchino, Marcello e gli altri Che amici quelli di d'Amico

Anglista, professore universitario, traduttore e sceneggiatore, Masolino d'Amico più che un nome e un cognome è una dinastia. Suo padre era Fedele d'Amico, critico musicale insigne, suo nonno, Silvio d'Amico, fu il fondatore dell'Accademia d'arte drammatica che ne porta il nome. La mamma, Suso Cecchi d'Amico, è stata tutt'uno con il cinema italiano del secondo dopoguerra ed era la figlia di Emilio Cecchi, il critico letterario che fece dell'elzeviro una forma d'arte. Uno zio di Masolino sposò una figlia di Luigi Pirandello, un altro era il pittore Amerigo Bartoli, uno dei «tre nani di Strapaese» (gli altri due erano Maccari e Longanesi). Infine, la suocera di Masolino era Elena Croce, figlia di Benedetto, il filosofo.
Non sorprende dunque che nello scrivere un libro dove sono raccolti i ritratti delle persone nel tempo, specie della giovinezza, conosciute, l'abbia intitolato Persone speciali (Sellerio). Mentre noi comuni mortali, nell'arco che va dall'infanzia alla maturità, vediamo bazzicare per casa un fritto misto di gente comune, Masolino d'Amico faceva giardinaggio con Luchino Visconti, il bagno con Marcello Mastroianni, andava al night con Anna Magnani, giocava a tennis con Giorgio Bassani.

Persone speciali non è il libro di uno snob, il catalogo di frequentazioni illustri che illustrano chi le racconta. La dinastia serve anche a questo, rendere normale ciò che per gli altri sarebbe eccezionale. È invece uno spaccato affascinante di una Roma e di un'Italia che non esistono più, ma che fino grosso modo all'inizio degli anni Settanta ressero il colpo e impersonarono un modo di vivere e di pensare. Una Roma e un'Italia borghesi, di famiglie grandi e stratificate (figli e genitori, nonni, nipoti e zii, domestiche di lungo corso), di case spaziose e decorose, prive di ostentazione, attente al risparmio, ma non toccate dall'avarizia, dove non si andava in vacanza, ma in villeggiatura, anno dopo anno sempre allo stesso posto, buone scuole per i ragazzi, rispetto per la cultura, l'età, i ruoli. C'era già la televisione, ma era ancora in bianco e nero e non invasiva, il telefono era fisso, spesso a muro, se si comprava una macchina era perché durasse negli anni, così come andare dal sarto era un investimento nel tempo.
Fra la ricostruzione e il boom, quella Roma e quell'Italia furono una specie di giardino incantato, povero ma bello, culturalmente rigoglioso. Si era usciti da una dittatura, una guerra mondiale, una guerra civile, una sconfitta, e per quanto si potesse pensare al peggio, non sarebbe mai stato pari a quello che l'aveva preceduto. Il regime scomparso aveva comunque lasciato uno Stato e un'amministrazione che, una volta rimosse le macerie, riprendevano a funzionare, il combinato disposto fra un'eredità ottocentesca liberal-nazionale e un certo spirito di sacrificio fascista e comunista favoriva una dignità nazionale, una voglia di riscatto. La storia faceva il resto, la consapevolezza cinica e insieme orgogliosa che al mondo non ci fosse nulla di paragonabile, che lì ci fosse ancora quella «dolcezza di vivere» agli altri, a tutti gli altri, negata. Sbagliando, ci si illudeva che sarebbe stato così per sempre. Eppure, finché durò fu bellissimo.

Di questa «dolcezza di vivere», Persone speciali è intriso, complice anche una scrittura svagata, colta e divertita, mai dozzinale. È il racconto di quando esisteva ancora una civiltà della conversazione, luoghi d'incontro, riti in comune, maschere e caratteri. A un Visconti che alla mostra del Cinema di Venezia minaccia di ritirare il film Notti bianche perché non è stata tagliata nel montaggio una battuta venuta male, si contrappone la romanità del montatore Ruggero Mastroianni che gli replica: «Conte, se vuole mi affaccio e dico, sono stato io». Parlando di Fellini, c'è l'illuminante definizione di quel «mondo corrotto ma fondamentalmente infantile» da lui reinventato e descritto. La più bella e feroce battuta sul minuscolo Amerigo Bartoli, che aveva definito Vincenzo Cardarelli «il poeta deca-denti» per via della sua dentiera malferma, è di quest'ultimo: «Non so dove sia Bartoli. Non sono mica un principe del Rinascimento, che va in giro col nano». Del regista Alessandro Blasetti, fascista senza eccessi, resta memorabile il commento scambiato con il papà di Masolino d'Amico, subito dopo la fine della guerra. «Lo sai che cosa ci vorrebbe ora? Un uomo con due coglioni così». Dall'ostinazione di Giorgio Bassani a scrivere poesie, e del fatto che in una in cui compariva un pirata, Masolino gli suggerisse di sostituire il whisky che beveva con il più classico rum, viene la considerazione di come quello sia stato «il mio unico contributo alla poesia del Novecento».

Il libro è pieno di annotazioni così, fulminee e insieme illuminanti.

L'eccessiva eleganza di Paolo Stoppa, il «fluido» magnetico e malefico di Mario Praz, l'ironica crudeltà di Alberto Sordi, la delicatezza con i bambini di Ennio Flaiano... Scrive Masolino d'Amico che «tra i molti debiti che ho con mia madre il maggiore è forse questo, un'infanzia, spenderò la parola, felice». Come il libro che in parte la racconta.

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