Un maledetto nel cielo della «Pléiade»

Un maledetto nel cielo della «Pléiade»

A desso che finalmente Drieu La Rochelle entra nella Bibliothèque de la Pléiade, la collana letteraria più prestigiosa di Francia (Romans, rècits, nouvelles, 1834 pagine, 65,50 euro), vale la pena soffermarsi sul destino di un romanziere tanto dubbioso e critico riguardo al proprio talento, quanto sicuro rispetto al cammino da percorrere: raccontare la decadenza nel segno dell’antimodernità. Raccontarla chiamando in soccorso la satira e il cinismo, per meglio offendere e quindi difendersi, l’una e l'altro messi al servizio di una grazia stilistica disinvolta, fatta di sprezzatura e di quella gravità necessaria ad affrontare un tema quale la crisi di una civiltà.
Nelle scelte fatte dal curatore Jean-François Louette, non c’è naturalmente tutto Drieu: restano fuori, fra gli altri, I cani di paglia e L’uomo coperto di donne, e non è un gran male, ma anche L’uomo a cavallo, e Una Donna alla finestra, è ed è un peccato. Ci sono, come è giusto, Fuoco fatuo, Lo stato civile, Racconto segreto, La commedia di Charleroi, Piccoli borghesi e Gilles, ed è difficile dire quale sia il più bello. Felice è anche il recupero di Bleche, il suo primo vero romanzo, comprensibile che sia Dirk Raspe, il suo ultimo e incompiuto, a chiudere la selezione.
Letti in sequenza, essi sono rivelatori di una consapevolezza critica e di una capacità descrittiva e di interpretazione quali è difficile trovare, una sorta di balzacchiana commedia umana applicata alla Francia del primo Novecento.
Trenta e passa anni fa mi capitò di definire Drieu, con giovanile protervia, «un grande scrittore fallito» o qualcosa del genere. Louette cita sul tema un’affermazione di François Mauriac, che lo collocava fra «i falliti immortali», e la giudica severa nella formula e eccessiva nei toni. Ha ragione, ma lasciando Mauriac alla sua gesuitica grandezza, nel mio piccolo vorrei cercare di spiegare meglio il perché di quel mio giudizio così reciso e così parziale.
Un primo elemento è che Drieu si sentiva a disagio nei panni del romanziere: personaggi e storie avevano per lui un valore per il significato morale che se ne poteva trarre. Spesso nei primi c’è un eccesso di caricatura, spesso le seconde venivano lasciate a sé stesse, non evolvevano, oppure divenivano estenuanti nel loro procedere minuto. Restava l’impressione di uno scrittore che messosi coscienziosamente al lavoro, di colpo ne avesse abbastanza, sentisse la noia e l’artificio, temesse quasi il suo stesso talento. Drieu è un prosatore ammirabile, e non a caso Paul Nizan lo definì, come saggista, il migliore della sua generazione, ma nel romanzo di lungo respiro è la monotonia il peggior nemico, e ne era perfettamente consapevole. Proprio perché non era attratto dalla narrazione in sé, ma dalla riflessione che avrebbe dovuto procurare, c’è nei suoi romanzi l’impazienza e insieme la diffidenza verso una letteratura intesa come religione: la religione della bella forma, la religione della perfetta architettura della pagina, lo scrittore come sacerdote di un culto assoluto. C’è sempre stata in Drieu l’idea che la scrittura fosse un succedaneo dell’azione.
Era anche questo un portato della decadenza e della modernità, il predominio della parola, meglio della chiacchiera, e insieme la fine delle gerarchie, l’incapacità della nuova classe borghese a raccogliere l’eredità della vecchia classe aristocratica sconfitta, il passaggio da una società naturale a una società artificiale, il trionfo dei diritti e non più il rispetto dei doveri. Nei romanzi di Drieu c’è un lungo rosario di fallimenti: impotenza degli uomini e infecondità delle donne, vigliaccherie dei soldati e trombonismo dei politici, velleità intellettuali e ossessione economica, corruzione del potere, della gloria, della Chiesa. È l'immagine di una società che corre verso il disastro senza saperlo, o meglio senza volerlo vedere: nessuno sa più incarnare il proprio ruolo, è il dominio della sterilità mascherata da benessere.
Nato nella decadenza propria della modernità, «il Moderno è una catastrofe planetaria», Drieu però sa di farne parte ed è questo che dà un particolare tono di contemporaneità alla sua prosa. Non c’è in lui la fuga verso l'esotismo, il chiudersi nella torre d’avorio del proprio rifiuto del mondo, la scelta di una fede trascendente. Le miserie, le vigliaccherie, il fallimento e la paura della condizione umana che egli racconta sono anche le sue: non è un giudice, è un testimone interessato, parte lesa, ma anche principale imputato. «Avrei voluto scrivere un libro intitolato: Pamphlet contro me stesso e i miei amici. Sarebbe stato un modo di scrivere una diatriba sull’epoca. Fustigavo senza pietà l’epoca in me, questa epoca in cui la società invecchiava così velocemente».
Tutto questo rimanda a un altro elemento, una sorta di autobiografia mascherata che è stata per certi versi la dannazione di Drieu, il prendere sempre e comunque le sue creazioni come calchi personali, il confondere i protagonisti dei suoi romanzi con il loro autore. Allo stesso modo, il fascismo politico di Drieu, in filigrana presente anche nella sua narrativa (il culto della forza, il ritorno alla natura, la necessità delle élites, lo spirito di sacrificio, il rifiuto della democrazia, eccetera) e come tale tranquillamente accettato fino al 1939, l'anno in cui viene pubblicato Gilles, che ne è un po’ il compendio, è stata la successiva camicia di Nesso con cui la critica, letteraria e no, del dopoguerra lo imprigionerà per negarne in nome della morale ideologica ogni grandezza artistica.

Scrive Louette che, a più di mezzo secolo dalla morte, il suo fascino, nonostante tutto, sta proprio nell’impossibilità di tradire lo scrittore rispetto al militante, o viceversa, tanto in lui estetica e politica facevano parte della stessa persona. Tornare a leggerlo, o cominciare a leggerlo, non è più peccato.

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