A Milano non si sogna più E la politica allunga le mani

Sembrano lontani i tempi in cui la società civile dettava le riforme. Ora la borghesia si rimette ai partiti. Ma qualcosa si sta muovendo

A Milano non si sogna più E la politica allunga le mani

Ci sono degli incipit di saggi che mi fanno venire brividini di invidia, tanto sono efficaci. Eccone uno: «Questo libro su Milano è eccentrico, peripatetico, impressionistico e fazioso». Il libro è Il cuore in mano. Viaggio in una Milano che cambia (ma non lo sa) (Longanesi, 208 pagine, 14,50 euro). L'autore è Salvatore Carrubba, ex direttore del Sole-24 Ore, ex assessore alla Cultura e delle Relazioni Internazionali del Comune di Milano (ai tempi di Albertini) e ora presidente dell’Accademia di Brera. Carrubba, catanese di nascita, conosce bene la città di cui parla: non solo perché la ama, ma anche perché la studia e la esplora.
Il suo libro, infatti, è davvero peripatetico: come i cronisti di una volta Carrubba è andato a esplorare le periferie di cui solitamente si parla solo in caso di disgrazie; eccentrico, perché il centro borghese dentro la cerchia dei Navigli «ormai rappresenta pochissimo in termini sociali e numerici»; impressionistico, perché è un’interpretazione della città, sia pure molto ben documentata; fazioso, perché parte dalla convinzione che il futuro di Milano possa essere meno cupo delle frequenti autoflagellazioni che i milanesi si infliggono con un piacere masochistico: «Milano soffre non di essere quello che è, ma di non comprendere quello che diventerà».
Carrubba - documentato e attento, dalla scrittura piana e felice - guarda i grattacieli che si innalzano ogni giorno di più e non nasconde il suo ragionato ottimismo. Quei grattacieli non potranno essere soltanto le nuove case dei ricchi, dovranno diventare un centro di nuova attrazione per i milanesi che hanno lasciato la metropoli per il suo hinterland, per i giovani che devono dare nuova linfa al suo centro. E ha ragione.
Eppure, non più tardi di un mese fa, trovandomi all’ultimo piano del grattacielo della Regione Lombardia, invece che al futuro i pensieri mi correvano al passato. Abitavo in quella zona fino agli Anni Novanta - mica un secolo fa - e proprio lì c’era un’area triste e vuota frequentata da barboni e prostitute vecchie, di solito ospiti della Stazione centrale. Dall’alto, pensavo alle tante volte in cui avevo dibattuto (i ragazzi non ci crederanno, ma era una discussione quasi quotidiana), sull’assurdo problema se Milano dovesse crescere in verticale, con i grattacieli, o continuare a espandersi nana. Pensavo che quella battaglia sembrava persa, quando decisi di lasciare la città che tanto amavo e che tantissimo mi aveva dato: afflitta da tangentopoli e da un sindaco leghista che voleva trasformarla in un collegio per discoli, sembrava che la «capitale morale» dovesse contare, ormai, soltanto per il suo Palazzo di Giustizia.
E ora eccomi lì, sul tetto della Regione, a guardare quel fiorire di grattacieli di vetro in una città che si prepara (bene o male) all’Expo 2015. Pensavo dunque, anche, a un libro dell’ottobre 1986, al quale collaborai: Storia di Milano. Dai Romani a Tognoli (che, per chi non lo sapesse, era un bravo sindaco socialista). Il libro era nato sulle pagine di questo giornale «durante il mese di agosto, vuoto di pubblicità e spesso anche di notizie», come scrisse Montanelli, con amabile brutalità, nella prefazione. Ci lavorarono, fra gli altri, Maurizio Blondet, Franco Cardini, Mario Cervi, Lucio Lami, Mino Milani. Niente male, e Mondadori lo pubblicò subito. Vado a ripescarlo negli scaffali dei libri amati. Mi colpiscono le ultime righe, di Scarpino, che meritano la lunga citazione: «Tutte le grandi città hanno un destino di splendori e decadenze e stanno fra loro, come ha spiegato Fernand Braudel, in un ordine gerarchico sempre provvisorio. (...) Pare sia inevitabile e la vitalità di ogni centro è costituita da un’instabile miscela di risorse e intuizioni, cultura e potere, società, politica e mercato. Milano ha una grande storia. Ma è anche tutto sommato una città giovane, il suo passato non la schiaccia. Può restare ancora a lungo nel novero delle città in cui si decide».
Carrubba, quasi riprendendo quel discorso, scrive che Milano «si scopre più dipendente dalla politica. E il distacco - se non superbo, beffardo - col quale si era permessa per anni di guardare a Roma appare sempre meno giustificato. Adesso Milano sa di dover fare di necessità virtù: della politica ha più bisogno, le scelte che la riguardano non si decidono solo qui». Non solo: Milano sembra avere perso la possibilità di presentarsi come un luogo dove è possibile realizzare i sogni.

Tutto ciò però non deve essere preso con lo sconforto della resa, ma come lo stimolo a ripartire da una nuova realtà: tornare a riacquistare consapevolezza del proprio ruolo; e decidere che contributo assicurare alla trasformazione del Paese, così come Milano ha fatto per almeno cento anni.
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