Narrativa

Si parte mettendo la testa contro le chiappe di un compagno, nell’attesa che la palla gli sbuchi di tra le gambe, per agguantarla e lanciarla avanti in un nuovo attacco. E si finisce nella nebbia vaporosa dello spogliatoio impregnata di sudore e sangue, mentre qualcuno ti fascia le caviglie doloranti e tu t’infili in bocca i denti finti (quelli originali li hai perduti in una mischia tanto tempo prima). Non è una gran carriera, quella di Arthur Machin, proprio no, e nemmeno una gran vita. «Dieci anni di questa vita, dieci anni di folla: bastava commettere un errore, un solo piccolo errore, e l’intera tragedia del vivere, dell’essere vivi, penetrava nella gola della folla che ruggiva il proprio dolore come un animale mutilato. L’urlo, la rabbia della folla echeggiò sopra la valle, saturandola. Un’ombra mi venne incontro nell’oscurità».
Di errori, la sua vita è piena, e anche di ombre. Escono dalle mischie sui campi infangati e pestano duro su muscoli e ossa, allontanando la meta come fosse un’oasi nel deserto. David Storey (classe ’33) conosce bene il sapore di quella vita, perché è stata anche la sua, quella di giocatore della Rugby League, il rugby dei poveri nell’Inghilterra operaia del nord, quello a 13 uomini, quello in cui il professionismo teoricamente era «semi», ma in realtà era «doppio»: prima il lavoro in fabbrica o, peggio, in miniera, poi quello a prenderle e a darle di santa ragione, sperando di poter tornare a casa sulle proprie gambe, naturalmente dopo qualche pinta di birra scolata al pub.
Pubblicato nel 1960, This Sporting Life è il ritratto di una classe operaia che non soltanto non va in Paradiso, ma fatica a mantenere le posizioni nel Purgatorio quotidiano. Uscì in Italia, con il titolo Il campione, prima da Feltrinelli nel ’62 e poi da Garzanti nel ’66, quando la nostra, di classe operaia, doveva fare i conti con l’apice del boom economico. È quindi un bene che torni ora (per la romana 66thand2nd, pagg. 330, euro 17, traduzione di Guido e Irene Bulla), quando intorno alle rivendicazioni dei proletari di Fiat e dintorni c’è un gran mulinare di cappelli dei signori della politica, desiderosi di accaparrarsene, se non la stima, almeno un superminimo di consenso.
Al nostro Machin, soprannominato Tarzan dalle pupe che bazzicano il «Mecca» in cerca di un ganzo da sposare, nonostante il titolo mancano sia il talento sia le motivazioni indispensabili per trasformare un giocatore più che buono in un Campione. Anche perché se vuoi finire in nazionale non ti basta ammazzarti di allenamenti, occorre la serenità familiare, l’unica solida base su cui costruire la scalata al successo. Invece Art vive a pensione dalla signora Valerie Hammond, vedova di Eric, morto di quella che oggi chiameremmo «morte bianca» nella stessa acciaieria dove lavora il protagonista del romanzo. Di dieci anni maggiore di lui e con due bambini da mantenere appena sopra il limite di guardia della decenza, Val non è la partner ideale per sostenere le fughe in avanti di Tarzan. Il quale, tuttavia, se ne innamora a modo suo, diciamo un po’ rudemente. In fondo, è un giocatore di rugby...
Entrato nel poco glorioso ma molto orgoglioso City Rugby League Club di Primstone con un ingaggio da 500 sterline a stagione più eventuali premi, Art non può certo permettersi di mollare l’impiego da cui ha tratto sostegno fino ad ora. Né può seguire quel farfallone del compagno Maurice nell’utopico progetto di mettersi in proprio con un’attività commerciale. Quanto ai boss della società, Weaver e Slomer, il secondo è una presenza impalpabile e il primo, una mezza checca, non può certo mettersi a finanziare chi ha cercato di farsi sua moglie...
Se aggiungiamo che anche i genitori di Art non se la passano bene e che l’unico suo fan disinteressato è Johnson, un vecchio rincoglionito senza arte né parte, al povero Machin non resta, per evadere da una routine alienante, che qualche lettura da pugno nello stomaco come la biografia di un proletario del ring, Rocky Graziano, e... ciò che resta della ancor più disgraziata Val.

Le pagine che descrivono la malattia e la fine della donna sono quelle più intense e delicate del libro (dal quale nel ’63 Lindsay Anderson trasse il film omonimo con Richard Harris nel ruolo principale).
Degno suggello di una storia cruda e inospitale come l’Inghilterra lontana anni luce dai rutilanti Sixties che là sotto, in una Londra del tutto estranea, si apprestavano ad andare in scena.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica