Cultura e Spettacoli

Nella cultura è suonata l’ora dei saltimbanchi

Pamphlet al vetriolo del Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa. Arti e filosofia sono state banalizzate da una casta di intellettuali irresponsabili

Nella cultura è suonata l’ora dei saltimbanchi

Primo e unico comandamento della nostra società: divertirsi. Ma se poi, riducendo la cultura a puro intrattenimento, morissimo dalle risate? Non è tutto. I chierici hanno tradito ancora ma non si sono messi, come denunciava il filosofo Julien Benda, al servizio di una ideologia. Questa volta hanno ceduto al narcisismo e al nichilismo, condannandosi all’irrilevanza (a volte, ma neppure sempre, ben retribuita). È l’autorevole opinione dello scrittore peruviano Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura nel 2010. Il suo pamphlet La civilización del espectáculo (Alfaguara) è un durissimo attacco alle mode e alle tendenze intellettuali (o meglio intellettualoidi) degli ultimi sessant’anni. Potremmo idealmente collocare questa antologia di saggi accanto a L’inverno della cultura (Skira) di Jean Clair o alla Cultura del piagnisteo (Adelphi) di Robert Hughes o ancora ad A caccia della bestia da un miliardo di piedi (Leonardo) di Tom Wolfe. I punti di contatto, soprattutto col critico d’arte Jean Clair, sono numerosi. Diverso è pero il background: Vargas Llosa, pur massacrando quasi tutto ciò che viene premiato dal mercato, si guarda bene dall’esecrare il mercato stesso. È infatti il mercato a garantire libertà d’espressione e opportunità per tutti. Il problema è un altro. Nessuno oggi sembra interessato a discriminare, a fissare delle gerarchie artistiche, opinabili finché si vuole ma necessarie al fine di evitare che le classifiche di vendita, o le quotazioni di un artista, diventino una sorta di bollino di qualità. Insomma: grazie al mercato c’è spazio per tutti. E dunque viva il mercato. Ma qualcuno dovrà pur dire che tra Mordecai Richler, autore stimabile, e William Faulkner, genio immortale, c’è qualche differenza di stile e profondità.
La cultura, secondo Vargas Llosa, ha subito un processo di banalizzazione. Perché? E chi sono i responsabili? Innanzi tutto, scontiamo la demagogia della classe politica supportata da una nutrita schiera di (penosi) intellettuali di riferimento. Una società liberale e democratica ha il dovere morale di avvicinare le masse alle arti, alle lettere e alle manifestazioni. Qualcuno però ha fatto il furbo e, con la scusa di sottrarre la cultura alle élite, ha sdoganato la trivialità e la superficialità dei contenuti. Tutto è diventato light: cinema light, letteratura light, arte light. Queste espressioni artistiche, in realtà inconsistenti, trasmettono al pubblico l’illusione di poter essere all’avanguardia con uno sforzo minimo. Questa cultura, che si spaccia come fenomeno di rottura, non fa altro che alimentare il conformismo attraverso le sue manifestazioni peggiori: la compiacenza verso il pubblico e l’autoindulgenza. In questo processo, gravi responsabilità sono da attribuirsi ai critici che hanno rinunciato al loro compito, diventando (in)consapevoli pubblicitari.
L’intellettuale non gode più di alcuna stima e di alcuna reale influenza. I nuovi protagonisti della civiltà dello spettacolo, dominata dall’immagine e dalla tecnologia digitale, sono i comici che occupano il proscenio un tempo occupato da filosofi e letterati logorati dai troppi decenni spesi prima nell’ammirazione dei totalitarismi e poi nella promozione di se stessi. E noi italiani, che abbiamo Beppe Grillo come titolare di un marchio di successo in politica, ne sappiamo qualcosa.
Quando si tratta di fare qualche esempio, Vargas Llosa è particolarmente spietato. «La nostra epoca, conforme alla inflessibile pressione della cultura dominante premia l’ingegno e non l’intelligenza». Ecco perché noi oggi abbiamo Woody Allen e non Luchino Visconti; Damien Hirst e non Van Gogh; Dario Fo e non Cechov. L’arte è intesa solo come farsa e parodia. Il saltimbanco ha stravinto sul pensatore.
Nel capitolo L’ora dei ciarlatani, eloquente fin dal titolo, Vargas Llosa demolisce le figure chiave della controcultura anni Sessanta-Ottanta. Baudrillard ha sepolto alcune giuste intuizioni sulla realtà, rimpiazzata dalla realtà virtuale dei media, sotto una coltre di verbosi non sense che conducono all’abolizione della realtà stessa. Foucault, con le sue teorie sul potere esercitato attraverso il linguaggio, ha finito col minare alla base ogni idea di magistero morale e culturale, influenzando i movimenti «democratici» che hanno condotto l’istruzione pubblica al disastro. Derrida ha completato l’opera, arrivando a stabilire che esistono solo interpretazioni e non fatti: il che implica il relativismo assoluto e l’impossibilità di stabilire un accordo anche minimo sui valori, inclusi quelli estetici. Derrida non aveva calcolato l’effetto collaterale di questa «libertà»: la civiltà dello spettacolo, da lui esecrata, non aspettava nulla di meglio per potersi finalmente imporre senza alcun ostacolo.
Nell’epoca del divertimento, per Vargas Llosa c’è poco da ridere: della grandezza avanzano i cocci, e per andare avanti non resta che tornare indietro. Alla grande letteratura, alla grande arte, alla grande filosofia, alla grande critica: roba concepita per durare in eterno perché affronta temi eterni. Volendo si può provare.

Anche se non si finisce in classifica.

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