Nelle città divise in tribù conta "di che sangue sei"

Le metropoli multietniche mancano di collante politico, ideologico e religioso. L’unico legame diventa quello etnico: ma così si sgretola l’idea di convivenza

Miami, scrive Tom Wolfe, è l’unica cit­tà del mondo in cui oltre la metà della popolazione e di recente immigra­zione. I cubani sono la maggioran­za e sono seguiti dagli afroameri­cani e dagli altri «latini». I bianchi non ispanici sono soltanto il 12 per cento degli oltre 400 mila abi­tanti. Un laboratorio perfetto per l’ottantunenne scrittore statuni­tense, già autore di romanzi quali Il falò delle vanità (Mondadori) e di almeno una dozzina di reporta­ge universalmente noti (a esem­pio, Radical Chic. Il fascino irresi­stibile dei rivoluzionari da salotto ,
Castelvecchi).
Cosa succede dunque in una metropoli multietnica? La rispo­sta è nel titolo del nuovo roman­zo,
Back to Blood , ritorno al san­gue, appena uscito negli Usa (in Italia arriverà nel 2013). La so­cietà manca di un collante, di qualcosa in cui tutti pos­sano riconoscersi: religio­ne e ideologia sono state spazzate via; non esiste un’idea condivisa di Stato. Vivere senza punti di riferimento è però impossibile, quindi si torna a credere nel «san­gue », ci si aggrap­pa alla tribù, si cerca rifugio nelle regole del proprio gruppo etni­co.
La cittadinanza è stata sconfitta dall’ appartenen­za a una comunità ristretta e auti­stica. I bianchi anglosassoni, i ne­gri afroamericani, gli haitiani, i cu­bani, i latini vivono gomito a gomi­to ma di fatto ignorano cultura e costumi dei propri vicini. A esem­pio, tutti sono convinti che il prota­gonista del libro, un immigrato cu­bano di seconda generazione, par­li spagnolo, non sia in grado di esprimersi in inglese e abbia stam­pat­a nella mente l’isola dei suoi ge­nitori.
Invece non conosce lo spa­gnolo, maneggia bene l’inglese e non ha mai messo piede a L’Ava­na. Questo pregiudizio, inevitabil­mente, lo sospinge ancora di più tra le braccia della «tribù» cuba­na.
Nestor Camacho, poliziotto cu­bano, immigrato di seconda gene­razione, con un gesto eroico in ma­re aperto, salva la vita a un clande­stino in fuga da Castro. In questo modo, però, causa l’arre­sto dell’attivista,
che avrebbe avu­to diritto all’asilo politico se fosse riuscito a mettere piede sulla terra­ferma statunitense. Camacho, in­vece di essere celebrato, diventa un uomo senza patria, messo al bando dal quartiere, ripudiato dal­la famiglia, guardato con fastidio dai suoi superiori. La storia di Ca­macho si intreccia con quella del­la bella Ghislaine. Immigrata di se­conda generazione anch’essa, di provenienza haitiana, si finge francese di origine normanna gra­zie alla pelle perlacea. Ghislaine assiste con preoccupazione alla trasformazione del fratello, il qua­le fa di tutto per essere accettato dagli haitiani, mescolandosi alle bande di coetanei in cui si parla creolo. Una «regressione» utile a difendersi dalle altre gang etni­che in lotta per il territorio. Nelle oltre 600 pagine di Back to Blood incontriamo poi l’enclave russa, la latina (a sua volta frammentata
nazione per nazione), e quella de­gli
anglos bianchi. Come vanno le cose? «Tutti odiano tutti», riassu­me un personaggio. La politica è debole. Le istituzioni, al massi­mo, possono fare in modo che le varie enclave siano sicure e uguali davanti alla legge. Di fatto, però, subiscono il ricatto dei quartieri pronti a esplodere. Per evitare le ri­volte, talvolta si deve alterare o na­scondere la verità. È la bancarotta del multiculturalismo.
Se dal punto di vista narrativo, Wolfe ricorda qua e là il James Bal­lard di romanzi come Cocaine Ni­ghts ,
Millennium People , Regno a venire , l’idea che la civiltà si stia ri­tribalizzando ricorda, sia pure con differenze non trascurabili, le pagine più famose di Michel Maf­fesoli. Secondo il grande sociolo­go francese, la tribalizzazione è il ritorno alla normalità: le ideolo­gie novecentesche, le divisioni tra destra e sinistra, erano fenomeni effimeri.Oggi all’apparenza vivia­mo in un mondo individualista, ra­zionale e progressista.
In realtà, la nostra epoca è segnata dal recupe­ro d­ell’arcaico attraverso la tecno­logia (la rete, in particolare). Maf­fesoli però non ne fa una questio­ne etnica ma culturale. Nella sua visione ci sono infinite tribù reli­giose, musicali, sessuali, sportive, cologiche... Ironicamente, Wolfe detesta la cultura postmoderna europea: eppure sembra averne fatto tesoro.
Lo scrittore Usa, come suo soli­to, non risparmia fucilate al politi­camente corretto.

Indotto dall’os­sessione della razza, nato per ne­gare l’esistenza della questione, ha finito col privare la gente delle parole schiette necessarie per ri­solvere il problema. Dietro l’ideo­logia corrente, secondo la quale non esistono differenze di genere o di razza, le tribù si riorganizza­no. Benvenuti nella preistoria?

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