Per fare letteratura non è indispensabile scrivere «alto», scrivere poco, scrivere grandi epopee o sotto ispirazione. Il gran lombardo-ucraino Giorgio Scerbanenco, senza vere giustificazioni critico-filologiche confinato a lungo dentro i recinti della narrativa di genere, sfumata nei diversi colori «rosa», «giallo», «giallo-nero», «nerissimo», si è dimostrato semmai uno scrittore vero, senza aggettivi, un maestro assoluto del racconto breve e un gigante nel narrare le piccolezze umane. Nonostante già Leonardo Vergani illo tempore l'avesse battezzato «Cechov dei Navigli», la nostra editoria lo ha in fondo sempre considerato un minore di successo, invece che un gigante sottovalutato. Taggato con le parole chiave «giallista», «Milano nera», «padre del noir italiano», «una macchina per fare storie», «consolatore di piccole Bovary di provincia», Scerbanenco fu invece un raccontatore di assoluto talento, un geniale artigiano della penna. Apparentemente un autore di genere, in realtà completamente sui generis.
Ucraino di nascita e milanese di rinascita, che non si fece anagraficamente adottare dalla città ma semmai fu lui ad adottarla narrativamente, disegnando per lei un'inedita topografia letteraria, Scerbanenco non credeva affatto all'ispirazione («Si scrive quando si scrive», diceva, cioè sempre per lui), aveva una capacità affabulatoria fuori dagli schemi (a chi si stupiva dei ritmi e della vastità della sua produzione, tra racconti, romanzi a puntate, rubriche e pezzi giornalistici, spiegava che per lui il problema non era farsi venire in mente delle nuove storie, semmai scacciarne qualcuna delle troppe che affollavano la sua testa), ed era dotato di una scrittura felicissima e di una personalità altrettanto complessa: basti pensare a tutti gli pseudonimi adottati e alla disinvoltura con la quale passava da una storia gialla a una di gangster a una sentimentale a una di guerra a una di fantascienza, e persino western.
Un tipo strano, questo allampanato tuttofare, rigido ma sensibile. Come ricorda la figlia Cecilia «assomigliava al suo Duca Lamberti, un pizzico meno di aggressività e un pizzico in più di dolcezza». Identici invece per la capacità di cogliere la psicologia delle persone nelle situazioni difficili e l'anima di una società nei momenti di crisi. Cioè le qualità che gli hanno permesso di mettere a nudo, senza scomodare Checov, e neppure Balzac o Simenon, una città resa violenta dall'incubo del denaro e del benessere facile (la Milano del boom e calibro 9 degli anni Cinquanta e Sessanta di tanti suoi racconti) piuttosto che un Paese silenziosamente sull'orlo della catastrofe (l'Italia degli ultimi anni di guerra e di regime, affamata, bombardata e censurata, ritratta ad esempio nelle storie scritte tra la fine del 1941 e l'agosto del '43 per il Corriere della sera).
Osservatore distaccato e narratore compassionevole dei dolori umani, il «milanese di Kiev» Giorgio Scerbanenco è un raffinatissimo scrittore pulp. Una fucina letteraria nel senso più nobile e popolare del termine, talmente nobile da essere diventato un classico e talmente popolare da rimanere di genere.
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