La letteratura, quella vera, è come un tizio che ti si affianca mentre te ne vai per la tua strada e ti dice: vieni, voglio mostrarti una cosa. Tu puoi non fidarti e mandare il tizio a quel paese. Ma, se accetti di seguirlo, ti mostrerà cose diverse dal solito, cose reali ma di cui nessuno parla mai, perché fanno vergognare. E dire che sembriamo disposti a parlare di tutto. Non esiste oscenità pubblica o privata, nazionale o internazionale, il cui puntuale resoconto non entri quotidianamente nelle nostre case sotto forma di immagini, o di parole. Si direbbe che non ci si vergogni più di nulla.
Ma la letteratura - ripeto, quella vera - smentisce questa credenza, più vacua di Babbo Natale. Perché di una cosa non vogliamo sentir parlare, una cosa non vogliamo che si racconti, ed è la Perdita dell’Innocenza. O, per dirla più propriamente: la Cacciata dal Paradiso. E la letteratura, essenzialmente, ci parla proprio di questo. Possiamo persuaderci finché ci pare che il Paradiso non esiste, che Dio non esiste, che l’uomo è un fascio di nervi, il prodotto del caso e della selezione naturale e altre simili leggende create per rassicurare l’uomo, acquattandolo in un placido nichilismo allo scopo di gestirlo, di controllarlo meglio.
Basta, però, aprire un vero romanzo per sapere con certezza che la verità è un’altra. Finché la polizia delle coscienze non avrà catturato il criminale che ti si affianca mentre cammini per la tua strada, saremo sempre tutti in pericolo di morte. Ma, soprattutto, saremo in pericolo di vita. Ecco. Il fascino che l’opera di Aurelio Picca esercita, su qualunque lettore italiano che non sia un mentecatto, nasce da qui. Da questo bisogno di riaprire i conti con il Paradiso che abbiamo perduto, di guardare in faccia la nostra condizione di esuli.
Un paradiso fatto di bar di provincia, di pugili dilettanti, di disperati, di camerieri-pugili, di piccoli delinquenti dediti alla rapina e al biliardo, di motociclisti silenziosi e assassini, di ladri di gioielli, emerge nell’ultima opera, che è anche una sorta di summa personale, dello scrittore di Velletri: Addio (Bompiani, pagg. 180, euro 16, in libreria dal 9). Al centro, fra amori, ammazzamenti e vecchie canzoni, la storia di Carletto, colui che un giorno sarà Carlo ma non lo è ancora perché in questa campagnaccia, in questa Italia zozza, ergastolana, malandrina c’è ancora posto - è il miracolo - per l’Innocenza.
Chi sa di avere perduto il paradiso ha due alternative: o il crimine o la letteratura. Cosa hanno in comune letteratura e crimine? Quello che si è detto, la perdita dell’innocenza. Di crimini è pieno il libro di Picca, che su due di essi, i più famosi, si apre e si chiude: quello relativo al rapinatore Leonardo Cimino, che nel 1967 uccise a Roma i fratelli Gabriele e Silvano Menegazzo, gioiellieri; e quello relativo alla morte misteriosa del ragazzino Ermanno Lavorini, in quel di Viareggio, nel 1969.
Le cronache di quei fatti inondarono i quotidiani del tempo, gremirono i telegiornali, animarono i capannelli in piazza (che allora c’erano). Ma per comprendere occorre vestire i panni dello storico, ossia del vero narratore, che delle cronache e delle malevole intenzioni che le muovono non sa che farsene, e con immensa fatica cerca di disseppellire i corpi e le anime, affinché sia reso onore all’uomo. Il mondaccio di cui - sotto la tutela dei suoi numi, Manzoni e Foscolo - Picca racconta, attingendo alla propria infanzia e ripercorrendo le pagine dei propri stessi libri, riceve la sua porzione d’onore in questo romanzo corale, rituale, perché solo il rito dà alla vita e alla morte il suo posto, il suo inno, il suo alzabandiera.
Nelle ultime struggenti righe Picca spiega perché, anziché criminale, è diventato scrittore: «A quella perduta innocenza vorrei dire: Ciao, bellina, come stai?, ti voglio tanto bene. Alla creatura straziata avrei voluto dedicare la vita che mi resta. Ma gli anni muoiono prima dei secondi. Il tempo è finito, Eppure desidero tanto spedire una lettera per supplicarla di tornare. Invece so che non lo farò. Perdonatemi allora se scrivo addio».
Il criminale è infatti un bambino, un cattivo delle fiabe, uno che s’illude di poter conservare per sempre l’infanzia del mondo.
Nessuno, in Italia, scrive come Picca. Nessuno sa ferire come lui. Per questo il mio consiglio è di leggerlo.
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