Quell'urlo di un'anima alla deriva

Daniele Mencarelli, autore di "Tutto chiede salvezza" (vincitore del premio Strega giovani) ha scritto questo racconto per "il Giornale". Parla di una ragazza travolta dal dolore del suo disagio alimentare

Quell'urlo di un'anima alla deriva

Daniele Mencarelli ha vinto il premio Strega giovani con il romanzo Tutto chiede salvezza (Mondadori) che tratta il tema della malattia mentale e della preghiera in modo intenso e commovente. Lo scrittore è tra gli ospiti della manifestazione "La città dei lettori", che chiude oggi a Firenze. In questa occasione ha scritto questo racconto per i nostri lettori.

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Non posso non scriverne.
Perché la scrittura è questo. Accogliere la vita degli altri, di chi non può scrivere di sé e del suo transito nel mondo. Un transito spesso doloroso, accidentato, per mano di un destino già scritto. Gli sfigurati dagli eventi. Quelli a cui è toccato il ruolo dei perdenti, o degli ammalati, o dei morti giovanissimi.
Poi ci sono i malati nella testa. Quelli (...)
(...) che ragionano male. O forse troppo lucidamente.
Vite attraversate da una sofferenza insondabile. Magari il male fosse piantato solo nella testa, invece è sparso dentro ogni angolo di corpo. Ovunque. Male e vivere nella stessa identica misura.
È un dovere non scritto. Non posso non scriverne.
L'incontro letterario è in una località balneare. Da sud a nord ne ho fatti e ne farò ininterrottamente per mesi. La vita bellissima, e altrettanto stancante, di chi ha un romanzo da raccontare, condividere. Ma il mio romanzo non parla di avventure sentimentali, né delle minuterie di alcune vicende borghesi, grigie, neppure di una delle tante battaglie del tempo.
Il mio romanzo parla di malattia mentale e internamento. Di quello che l'uomo soffre da sempre: la sua condizione. Alcuni resistono, travestendosi al punto da dimenticare la propria stessa materia, altri affogano. Oppure si inceppano.
Il mio romanzo è un magnete. Ha attirato nel corso di questi mesi, e tanti sono sicuro ne attirerà, ogni sorta di dolore, di quelli a cui è difficile anche dare un nome. Perché quando il male è psicologico, si corre il rischio di dover cambiare identità al proprio nemico. A uso e visione del clinico di turno, dello psichiatra che attribuisce il disagio a questo motivo piuttosto che a quell'altro. Tutto assolutamente lecito sia chiaro.
L'incontro letterario nella località balneare finisce.
Mentre firmo qualche copia del romanzo, fissa come un lampione vestito a fiori, vedo una signora immobile. Mi guarda, mi aspetta. Non è certo la prima. Sta aspettando il momento giusto per parlarmi, vorrà senz'altro un minimo di tempo, e riservatezza.
«Non se l'è sentita di scendere».
La signora ha atteso il suo momento, chi non se la sia sentita di scendere e da dove non è dato sapere, lei mi prende delicatamente per un braccio, mi spinge verso l'ingresso del giardino dove ho fatto l'incontro.
«Mia figlia, sta in macchina, si vergogna troppo».
Intanto procediamo verso un luogo che non conosco.
La macchina è parcheggiata appena fuori il giardino. La signora mi apre lo sportello accanto a quello del guidatore. Mi ritrovo seduto in macchina.
«Lei è Emma».

Il sedile posteriore dell'utilitaria è in penombra. Emma si muove verso di me, mette il viso tra i due sedili anteriori. Quante volte ho vissuto questo momento. Allo stesso tempo, ognuno di questi momenti è un inedito assoluto. Mi esplode negli occhi una sofferenza antichissima e al contempo nuova, mai provata prima.
Di Emma si percepisce perfettamente il teschio sotto il filo di pelle tirata del viso, magro al di là di ogni salute mentale possibile.
«Ha un disagio alimentare che non riesce a superare, è uscita dall'ospedale la scorsa settimana».
È sempre la madre che parla.
Emma resta immobile, allunga leggermente le labbra per offrirmi un sorriso. Una creatura travolta dal dolore. Se il viso è di teschio, le spalle e le braccia sono di scheletro, vivo ancora per caso. Ora che gli occhi si stanno abituando alla penombra la vedo quasi interamente.
«Ho un disagio alimentare». Emma ha una voce sottile come la sua pelle. Mi sforzo per reagire alla visione che ho di fronte:
«Immagino starai in cura, c'è un motivo preciso per cui stai male secondo te?».
Emma resta assorta, gli occhi grandi, enormi nel viso scarnito, vagano in cerca di parole. Poi alza una spalla.
«È il disagio che mi fa stare male». La voce è ancora più sottile, stanca, sembra aver parlato per ore.
«Per me il disagio è un effetto, ma le cause sono altre, riguardano te, tu non sei il tuo disagio».
Silenzio. Emma non riesce a parlare, per la timidezza, per lo stato in cui è precipitata, a un passo dal non ritorno.
Vorrei dire, fare, ma mi opprime una rassegnazione che si trasforma in rabbia. Perché non è la prima che incontro. Non è la prima volta che sento questa confusione terribile, questa sovrapposizione tra essere e patologia, senza scampo.
Vorrei dirle che lei non è il suo disagio, che esistono tante altre parole, belle o terribili, per dire, raccontarsi. Che riassumere la propria vita dentro una diagnosi è il modo migliore per non uscirne più. Ma la rabbia vuole dei colpevoli. Cerca il nemico.
Perché di ragazzi ne vedo tanti, e ormai è più di un indizio. Chi gli sta togliendo le parole? Chi gli ha fatto sparire da di fronte agli occhi quei sostantivi che da sempre tengono in piedi l'umanità? Natura. Limite. Morte. Dio.
Senza parole l'uomo è cieco. Un cieco che brancola in un grotta chiamata io. Abbiamo esiliato questi sostantivi e al loro posto ne abbiamo introdotti altri, quasi tutti provenienti da due grandi bacini linguistici. Quello medico-scientifico, guarda caso, e quello economico. Ormai ragioniamo sulla nostra vita in termini di resa e competitività, e se abbiamo paura non utilizziamo più questo termine, ma parliamo direttamente di fobia, panico. Se non ci credete ascoltate con attenzione i vostri figli. Oltre al contenuto fate attenzione alla lingua che utilizzano.

Da lontano sento chiamare il mio nome, è la libraia che ha organizzato l'incontro, ci aspetta la cena.
La madre di Emma è un animale in pena, da genitore la capisco. Sperava in altro, in un intervento, il mio, ben più sostanzioso.
«Devo andare».
Il viso di Emma si riempie di delusione, d'istinto allungo una mano, prendo la sua poggiata sullo schienale del sedile anteriore. Il contatto, carne a carne, rivela più di tutte le mezze parole, gli sguardi. La carne mente di rado. Mi dice di una ragazza con mani di bambola, fredde, ridotte all'osso.
«Ti lascio la mail, scrivimi».
Lei annuisce, torna a stendere le labbra per offrirmi il sorriso.
Scendo dall'utilitaria. Mi lascio alle spalle Emma e sua madre, un mondo appena sfiorato a cui nulla ho potuto dare, chissà loro cosa si aspettavano, quale aiuto, miracolo. A me tocca il dovere di scriverne, ma non posso medicare, sanare. Io ho solo parole e cerco di scegliere le più giuste, quelle che qualcuno ci sta togliendo dalla lingua.

Mentre cammino, aggiungo un altro sostantivo alla lista di quelli cacciati dalla nostra vita. Preghiera. Per Emma, la madre. Questo posso. Questo devo. Pregare per tutti quelli azzannati dal dolore. E scriverne. Perché non ho altro modo per testimoniare.

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