Il respiro interrotto di una generazione che avrebbe voluto cambiare il mondo

Alla fine quel che resta, del tempo andato, è una canzone. O una voce che canta. O tutte e due. È un assunto banale ma lo è in quanto è un'esperienza che abbiamo vissuto tutti, che Guccini sintetizzava così: «ti circonda la malinconia/ e ti ricorda quel canto muto/ la donna che ha fatto innamorare/ le vite che tu non hai vissuto...». Su questo spartito esistenziale Fabio Stassi ha intrecciato, come una melodia polifonica, il suo Come un respiro interrotto (Sellerio, pagg.308, euro 16). Su un palco, piuttosto scalcinato, di un localetto della Roma anni Settanta si incontrano due personaggi bizzarri: Sole, una cantante dalla voce magica e dalla grande timidezza e Matteo, un bassista dotato di orecchio assoluto, la spalla ideale. Matteo, sino a poco prima, avrebbe voluto ammazzarsi con laconico biglietto: «Perdonatemi il mondo ha troppe stonature». Poi Sole attacca a cantare Alfonsina y el mar e qualcosa cambia, ritrova il senso della musica. Da lì in poi le loro vite si incrociano, diventano l'elica di Dna che dà vita al romanzo. Tra concerti, storie familiari, politica, lontananze e sogni che si sfilacciano sfilano la contestazione, gli Ottanta rampanti, i liquidi anni Novanta, e la grande crisi esistenziale del dopo millennio. Un lungo percorso in cui Stassi ricostruisce benissimo il farsi e disfarsi di una generazione che aveva sognato di cambiare il mondo. Ma non c'è riuscita. Magistrale, a esempio, il dialogo tra il gruppo di musicisti che gravitano attorno a Sole e chi invece sceglie le Brigate rosse. Come lo studente Manuel, un ragazzo colto e malinconico che però «si era spinto in una zona di gelo e ghiaccio da cui non sarebbe più tornato». E poi arrivano molte altre crisi e lisi, come l'impossibilità di cambiare la Sicilia o fermare l'eroina, l'inutilità di una vita normale e microborghese, il prezzo troppo alto dei lustrini della fama. Delusioni che nemmeno la voce di Sole è capace di lenire. Così alla fine lei, per prima decide di «riavvolgere il nastro» della sua vita.
Ma il finale doloroso, come è doloroso lo scorrere del tempo, non oscura le scintille musicali e gioiose che Stassi distribuisce per il testo, pieno di ritmo e prosa cesellata. E, in fondo, sarebbe comodo etichettare il romanzo di questo scrittore romano-albanese-siciliano, che si sforza di non essere mai barocco ma il barocco lo ha nel sangue, come un romanzo generazionale.

Per fortuna Stassi è del 1962. Il che significa che per raccontare quel mondo ha attinto ad un immaginifico letterario. E poi gli anni Settanta diventano, in questo caso, metafora di ogni giovinezza, fuggita via dietro a un'illusione.

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