La ricchezza del mercato si basa sulla sua moralità

Il titolo del libro di Arthur C. Brooks, La via della libertà (Rubbettino, pagg. 233, euro 15) è chiaramente ispirato dal famoso testo del 1944 di Friedrich von Hayek, La via della schiavitù. La via della libertà è il liberalismo, la via della schiavitù è il socialismo. Tanto la teoria, quanto la tragica storia del Novecento ci dicono che le cose stanno così: la libera iniziativa e la vita morale più vasta, affrancata da ogni morale governativa, ci permettono di vivere in un benessere diffuso e in un mondo vario, plurale e autentico, mentre lo statalismo deprime l'economia e nega la morale inculcando una sterile etica governativa che è la forma moderna della servitù volontaria. Il libro di Arthur C. Brook, e un testo di Sergio Ricossa, I pericoli della solidarietà (Rubbettino, pagg. 97, euro 10), sono utili per schiarire il pensiero e l'azione della libertà.
Arthur C. Brooks, prima di diventare presidente dell'American Enterprise e di dedicare le sue forze allo studio dell'economia è stato musicista e ha fatto parte dell'Orquestra Simfònica de Barcelona. Sarà per questo che il suo La via della libertà, pubblicato durante l'ultima campagna elettorale per la Casa Bianca, ha un buon ritmo fino al punto da rivelarsi un «manifesto morale del capitalismo». Infatti, Brooks mette in luce che ciò che c'è in gioco con il libero mercato non sono i soldi, ma la stessa libertà. Detto in modo ancora più chiaro: l'aspetto più importante e serio della libera iniziativa non è l'economia, ma la morale. Già un secolo fa Joseph Schumpeter faceva notare che quando una società è sviluppata, gli strumenti principali dello sviluppo - ossia gli sforzi degli imprenditori e degli stessi lavoratori - vengono attaccati, a favore di una ridistribuzione della ricchezza. In questo modo si tenderà a credere e a far credere che sia in gioco solo e soltanto il denaro. Invece, nel sistema della libera iniziativa è in gioco prima di tutto l'autonomia morale dell'uomo che se è mortificata e svilita non solo deprime la produzione dell'economia reale, ma rende anche gli uomini dipendenti dallo Stato. La via della libertà è capovolta nella via della schiavitù.
Il presidente del think tank di Washington mostra come gli Stati Uniti da un po' di tempo - e con un'accelerazione al tempo di Obama - si siano incamminati su una strada pericolosa e sperimentino una «lieve servitù» nei confronti di uno Stato in continua espansione che, affamato di tasse, si è appropriato di risparmi e risorse che gli imprenditori avrebbero potuto utilizzare per far crescere l'economia. Uno Stato debordante, che ha creato una classe protetta composta da lavoratori pubblici e aziende amiche operanti secondo regole diverse dal resto del Paese; uno Stato che ha lasciato la nazione in scacco per generazioni a venire. Sembra una descrizione dell'Europa, addirittura dell'Italia. Infatti, oggi l'America, che «è il più grande esperimento di libertà nella storia del mondo», se continua su questa strada rischia di trasformarsi in uno «statalismo di tipo europeo». Per evitare il pericolo Brooks non esita a richiamarsi ai Padri Fondatori e in particolare a Jefferson, il quale nella Dichiarazione di Indipendenza diceva che tutti gli uomini «sono dotati dal loro Creatore di certi inalienabili diritti fra i quali quelli alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità». Il «perseguimento della felicità» è l'esatto opposto della felicità promessa da tutti i socialismi e comunismi che con l'utopia creano l'inferno ed è, invece, la libertà morale degli uomini che possono scegliere come vivere ed essere gli artefici del successo personale e patriottico. Aveva ragione Ronald Reagan nel 1980 quando, vincendo su Jimmy Carter, disse che «la responsabilità della libertà ci spinge verso una più alta conoscenza e, io credo, grandezza spirituale e morale. Per mezzo di imposte più basse e di uno Stato più piccolo, il governo ha la facoltà di liberare le energie della gente. Ma solo se ciascuno di noi è in grado di lasciare che l'energia si innalzi oltre i nostri livelli individuali. L'eccellenza è ciò che fa risplendere la libertà».
Al contrario di quanto si pensi, il libero mercato permette la nascita della morale, mentre lo statalismo ne celebra il funerale. È questo uno dei pericoli della solidarietà di cui parla in modo illuminante Sergio Ricossa. La solidarietà richiede la libertà di scelta e non la costrizione: se c'è l'obbligo di legge, allora il valore morale della solidarietà va a farsi friggere. Ma in un regime statalista anche il valore economico della solidarietà svanisce: «Il presupposto teorico è che i ricchi paghino per i poveri. La conseguenza pratica è che, più spesso di quanto non si creda, i poveri pagano per i ricchi». La solidarietà obbligatoria è paramilitare. Dice con la sua solita sferzante chiarezza Ricossa: la solidarietà «obbligatoria per legge, imposta da politici demagoghi, pagata da contribuenti inermi, goduta massimamente da burocrati pubblici, inventata nella forma moderna da Bismarck, il cui ideale era trasformare la Prussia in un'unica caserma, trattando i civili come militari», è il contrario sia dell'azione lodevole, sia dell'azione utile. In fondo, la solidarietà organizzata su vasta scala altro non è che l'interferenza del potere pubblico nell'economia e nella vita morale delle persone e della società. Un intervento nel mercato e un'interferenza nella vita delle persone che non tarda a tramutarsi in arbitrio e clientelismo che, come dice Ricossa nel suo diario edito qualche anno fa, è la malattia che ha mandato in rovina l'Italia.
Sergio Ricossa, che i lettori del Giornale conoscono bene per essere stato per tanto tempo una firma prestigiosa del quotidiano fondato da Montanelli, non ama tanto distinguere tra liberismo e liberalismo e di se stesso dice: «Sono liberale e basta».

Ha le proprie ottime ragioni perché, in fondo, la bellezza della parola «liberale» sta proprio in questa sua integrità economica e morale, politica e istituzionale nella quale non si fa fatica a riscontrare il meglio della nostra storia nazionale e occidentale.

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