Cultura e Spettacoli

Il ricordo

Domenico De Robertis è morto due giorni fa a Firenze. Tra i massimi esperti di letteratura italiana, imprescindibile per capire Dante Alighieri, Giacomo Leopardi, l’intero Quattrocento e molto altro, De Robertis era nato a Firenze nel 1921. A Firenze si era laureato con Mario Casella, all’università di Firenze aveva insegnato a lungo, dopo un importante passaggio a Pavia. Accademico della Crusca, aveva diretto i prestigiosi Studi di filologia italiana. Alla mano, come spesso sono i grandi, prodigo di consigli, sempre suggeriti con umiltà anche quando la sua competenza era diventata leggendaria, De Robertis ha «convertito» alla filologia numerosi colleghi (a Pavia, soprattutto) e moltissimi studenti.
De Robertis era figlio d’arte. Suo padre Giuseppe aveva diretto La Voce dopo Prezzolini; e da finissimo lettore, capace di cogliere ogni sfumatura stilistica, aveva duellato con il filologo Gianfranco Contini sulle varianti (cioè sulle varie stesure) dei Canti di Giacomo Leopardi. Domenico aveva studiato questo «scontro» e aveva preso il meglio di entrambi i contendenti, coniugando la sensibilità per la parola del primo con la passione per le carte d’autore del secondo. Il risultato è presto detto. Un’edizione dei Canti, realizzata aggiornando quella del padre, che è lo spartiacque nella conoscenza del recanatese. Chi, e sono moltissimi soprattutto di recente, ciancia di Leopardi senza aver letto questo volume non fa che gettare parole al vento. De Robertis studia le varie edizioni delle rime curate dall’autore, ne ricostruisce la storia travagliata, fatta di ripensamenti continui nella posizione delle poesie; coglie appieno nella successione dei testi il crudele messaggio autobiografico; mette in relazione lo stile delle diverse sezioni col progetto organico che regge il volume. In altre parole: ci fa capire la portata drammatica delle canzoni iniziali, in cui il genere lirico per eccellenza è ridotto all’assurdo da versi che vanno verso la prosa (e assurde si rivelano quindi le nostre fantasie, da quelle eroiche a quelle amorose); ci fa toccare con mano quanto siano vane le illusioni dei piccoli idilli, progressivamente incorniciati proprio dalle canzoni, come a dire che i sentimenti sono già finiti, troppo precocemente: rimane solo l’aridità di un mondo senza speranza; ci fa cogliere il sarcasmo sotteso ai grandi idilli, registrati in ordine cronologico perché, in realtà, i giochi sono fatti, la storia è finita: A Silvia è solo il ridicolo sussulto di un cuore spento.
De Robertis privilegiava la conoscenza diretta dei documenti. Per questo l’edizione delle Rime di Dante Alighieri, uscita in tre volumi (cinque tomi e migliaia di pagine) nel 2002, è il frutto di quasi cinquant’anni di lavoro ininterrotto, che ha prodotto nell’attesa studi pionieristici sulla tradizione manoscritta e edizioni commentate del nostro poeta più grande. De Robertis studia le rime di Dante manoscritto per manoscritto, variante per variante. La fatica preliminare (gigantesca) è raccogliere ogni testimonianza manoscritta o a stampa delle rime dantesche. Il risultato finale è il volume dei Testi, ove De Robertis fornisce la sua versione di Dante, depurata dagli errori che inevitabilmente si depositano su un testo antico, che passa di copista in copista, di libro in libro. L’opera è di portata così vasta che, nonostante siano passati quasi dieci anni dalla sua uscita, è ancora presto per capire quale immagine di Dante ci restituirà. In compenso un paio di fatti sono sicuri: è inutile scrivere di Dante senza passare da De Robertis; il lavoro preparatorio si è trasformato in un eccezionale repertorio di manoscritti antichi della nostra poesia: chiunque si occupi dei secoli d’oro della nostra letteratura, dallo Stilnovo a Torquato Tasso, deve consultare queste carte per rintracciare testi, capire quali lettori ebbero, ricostruire la tradizione dei principali autori.
A proposito di tradizione. L’identità è tradizione, e la tradizione risiede anche nella conoscenza degli scrittori che hanno dato un’anima al Paese. Se questo è vero, l’Italia deve moltissimo a Domenico De Robertis. Apparteneva alla categoria di Gianfranco Contini, Dante Isella, Carlo Dionisotti. Non era noto al grandissimo pubblico.

Speriamo non sia un buon motivo per ripagarlo con una generale disattenzione.

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