Roth, Salinger, Rulfo&Co. Quelli che a un certo punto preferiscono dire «no»

Il più famoso, una leggenda in vita e in morte, è Jerome D. Salinger (1919-2010), l'autore del libro culto Il giovane Holden (1951) che dal '65, anno in cui apparve sul New Yorker il suo ultimo racconto, non scrisse (o meglio non pubblicò) più nulla, sparendo dal mondo. Nessuno ha mai saputo perché. Il più originale, invece, è Juan Rulfo (1917-86), grandissimo romanziere messicano, che pubblicò due capolavori, La pianura in fiamme (1953) e Pedro Páramo (1955), e poi più niente. A chi gli chiedeva perché, rispondeva: «Perché è morto lo zio Celerino, quello che mi raccontava le storie». E poi c'è l'infernale Arthur Rimbaud (1854-91) che in cinque anni scrisse tutto ciò che poteva e doveva scrivere, e poi abbandonò la poesia per l'avventura. C'è Edward M. Forster (1879-1970), diventato uno degli scrittori più celebri del proprio tempo con Camera con vista (1908) e Casa Howard (1910), ma che dopo Passaggio in India (1924) smette di scrivere romanzi, e dopo The Eternal Moment (1928) anche racconti: si dedica ad articoli, saggi, riflessioni di viaggio, ma mette una croce sulla narrativa. Quando lo decide non ha neppure 50 anni, e gliene rimarranno altri quaranta da vivere. In silenzio.
E da ieri, nel pantheon degli scrittori che hanno smesso di scrivere c'è anche Philip Roth, il quale, a 79 anni, due giorni fa ha confermato l'intenzione di non scrivere più romanzi (dopo averne pubblicati 26 in mezzo secolo) per dedicarsi alla vita, finalmente. «Ho passato la mia esistenza a scrivere sacrificando tutto il resto. Ora basta. L'idea di cercare di scrivere di nuovo è impossibile».
In fondo è comprensibile: scrivere significa smettere di essere uno scrittore. È l'idea che si è fatto lo spagnolo Enrique Vila-Matas il quale, rubando il nome al famoso scrivano di Herman Melville, quello che qualsiasi cosa gli chiedevano di fare rispondeva «Preferirei di no», qualche anno fa dedicò il suo bellissimo Bartleby e compagnia agli autori che per un motivo o per l'altro, o per nessun motivo del tutto, hanno deciso di non scrivere. Ossia scrittori-Bartleby che finiscono per non scrivere nulla pur avendo tutto il talento necessario per farlo. Oppure, se esordiscono, rinunciano presto alla scrittura. Oppure scrivono tutto in un soffio e poi spariscono. Oppure decidono di farla finita del tutto, suicidandosi. Da Socrate, che non scrisse una riga pur dicendo ogni cosa, a Guy de Maupassant che, dopo aver infilato un capolavoro dietro l'altro, terminò i propri giorni nella pazzia, camminando a quattro zampe. Dall'americano Henry Roth che nel 1934 pubblicò Chiamalo sonno, ignorato dalla critica (per essere rivalutato negli anni '60), e che abbandonò la scrittura, lavorando come pompiere, operaio e insegnante, prima di stabilirsi in un caravan ad Albuquerque, dove morì nel '95, al nostro Bobi Bazlen (1902-65), lettore formidabile e testa pensante di molte case editrici, Adelphi in primis, che in vita non pubblicò una riga. Fino a Felipe Alfau (1902-99), che smise di scrivere - a suo dire - perché da spagnolo era troppo occupato a comprendere le sfumature della lingua inglese, in cui a un certo punto aveva deciso di scrivere le sue opere.


E ci sarebbero anche Cristina Campo, che scrisse pochissimo e avrebbe voluto scrivere ancor meno, il filosofo Andrea Emo, che scrisse tantissimo ma non diede alle stampe nulla, o Eduard Limonov, che ha smesso coi romanzi per dedicarsi alla sua guerra personale contro Putin... Gente che, a un certo punto, come Roth, ha preferito dire «no».

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