La scienza «democratica»? O è retorica o è dittatura

La scienza «democratica»? O è retorica o è dittatura

Dopo quasi mezzo secolo, Mario Capanna è rimasto il volto, il nome e l'icona più nota della Contestazione studentesca. Ma mentre il '68 è andato al potere, lui è rimasto all'opposizione. E quest'anno è passato da sessantottino a sessantottenne. Dopo un'esperienza politica ai bordi della sinistra, con Democrazia Proletaria, Capanna ha assunto il ruolo di animatore di una fondazione che si batte per i diritti genetici. Lo fa con l'ardore di allora, meno sfrontato di quel tempo ma ammirevole per l'ostinata coerenza. Ho dialogato più volte con lui, avendo io scritto un libro che era già nel titolo ai suoi antipodi, Rovesciare il '68. Ma il tempo trascorso, gli scenari mutati, il riconoscimento reciproco di coerenza e spirito libero, forse la stanchezza e lo sconforto degli anni, hanno fatto nascere una scontrosa amicizia che ci ha portato a concordare su alcuni temi. Uno di questi appare ora in un libro sfornato da Jaca Book, Scienza bene comune, a cura di Mario Capanna (pagg. 342, euro 15).
È un libro collettaneo e nasce da un breve saggio che Capanna ha inviato a vari studiosi e intellettuali, chiedendo un commento da pubblicare sul web. Vi appaiono contributi di Marcello Cini, celebre dopo il '68 per la sua critica alla neutralità della scienza, di Emanuele Severino e Salvatore Natoli, padre Sorge e Gustavo Zagrebelsky, e poi Onida, Parsi, Urbinati, ma anche di autori controcorrente come Cardini e Monastra. Con qualche vergogna confesso di essere stato (con De Rita) il più tacitiano, con un contributo della dimensione di un «Cucù». Non è per riparare a quella stringatezza che scrivo ora questo ampio commento, ma perché il testo che ne è scaturito e il tema che affronta meritano un approfondimento.
L'opera s'interroga sugli effetti della scienza applicata alla tecnologia e sull'egemonia dello scientismo e il suo intreccio d'affari col sistema tecno-finanziario, la Mega Macchina. La scienza è situata nel mezzo tra capitalismo e democrazia, o meglio fra tecno-capitalismo e sovranità popolare. La scienza, come sappiamo, sorge da un sapere non finalizzato all'utile ma alla pura conoscenza; anche se poi le sue scoperte sono applicate tramite la tecnica e modificano la vita, l'ambiente, il mondo, i rapporti sociali. Perduto il suo significato originario di conoscenza, la scienza da un verso si è assoggettata al dominio pratico e funzionale della tecnica e asservita al potere o al profitto; dall'altro è assurta a ideologia o teologia, vestendo i paramenti sacri dello scientismo. Ma sappiamo pure che tante scoperte scientifiche che hanno giovato all'umanità nascono da scopi militari e bellici.
La tesi di Capanna è che la scienza debba sottomettersi solo al bene comune, non agli interessi privati di chi la sfrutta a fini particolari. Una tesi che si può in larga parte condividere quando si passa dalla pura conoscenza all'applicazione. Si pensi alle speculazioni sui farmaci, la salute, i rifiuti, l'energia, i trasporti. Fa bene Capanna a ricordare che una seria critica allo scientismo conduce a una visione spirituale. Ma nel saggio curato da Capanna il bene comune appare una metafora più neutra e più antica per dire democrazia. E qui, appena sento parlare di scienza democratica scatta un riflesso condizionato, il ricordo nefasto di quell'appellativo democratico che accompagnò i peggiori sfasci compiuti a partire dagli anni Settanta: Psichiatria democratica, Medicina democratica, Magistratura democratica, professori, studenti e genitori democratici, ecc. Diventò presto la parola-chiave dei collettivi militanti, legati al Pci o all'ultrasinistra, figli del '68. Superato quel nefasto ricordo, restituito a quegli anni e si spera non più proponibile nel nostro presente, resta però la perplessità di auspicare una scienza «democratica».
La considerazione che la motiva può essere anche condivisibile: «la scienza - dice Capanna - decide della nostra vita ma noi non possiamo decidere della scienza». D'accordo, ma chi siamo «noi» e come dovremmo esercitare il nostro potere? Dovremmo sottoporre la ricerca scientifica al voto democratico e ai delegati del popolo? Crediamo davvero che il maggior numero (manipolabile quanto e più della stessa scienza) e il controllo democratico dispongano al meglio la scienza nei confronti dell'umanità? Forse è meglio fermarsi al bene comune, cioè al primato dell'interesse generale, cercando di tutelarlo tramite un equilibrio fra tre fonti diverse: la competenza, cioè il sapere degli scienziati e il valore della ricerca; l'esperienza, cioè l'uso pratico, la vita, la storia e i costumi dei popoli; e la maggioranza, cioè l'opinione espressa dai cittadini e dal maggior numero di persone. Chiedere che la democrazia decida sulla scienza o è un'istanza retorica, solo ideale, senza effetti pratici; o è una minaccia inquietante, col servizio d'ordine democratico dei pasdaran che sorvegliano la scienza nel nome del popolo e vigilano sulla ricerca e i suoi frutti. No grazie, sappiamo che cosa vuol dire avere guardiani «democratici». Credo che anche Capanna aborra il modello sovietico, e non migliore fu il modello maoista. Sarebbe una sciagura ridurre il bene comune al controllo «democratico» dei vigilanti e tradurre la critica sacrosanta al dominio tecno-finanziario in una rediviva lotta di classe contro il capitalismo.
Ma il problema filosofico di fondo, a cui mi pare sensibile la Fondazione di Capanna, è ripristinare il giusto rapporto fra mezzi e fini, ovvero fra gli strumenti per tutelare e migliorare la vita, e lo scopo, ossia la vita stessa delle persone. La tecnica che deriva dalla scienza e il profitto che deriva dal suo sfruttamento nel mercato, sono mezzi formidabili di crescita ma non possono sostituirsi agli scopi. Sono due gambe che fanno camminare l'umanità ma è aberrante che diventino il cuore e il cervello. Sostituire i fini coi mezzi è l'aberrazione del nostro tempo, frutto della teologia scientista e della prassi tecnocratica. Sì, la scienza non è neutrale, e nemmeno la tecnica. Lasciate a sé, autonome e sovrane, crescono a danno dell'uomo e in ogni caso accrescono i rischi insieme ai vantaggi. Occorre accorciare il maledetto divario fra la tecnica che cresce e la cultura che decresce, il famoso «dislivello prometeico» di cui scriveva Günther Anders.

La visione della vita e del mondo, orientata da principi e mete superiori, non può essere sacrificata al puro procedere della macchina o al mero profitto privato. È l'eterno intreccio tra sapere e potere. Ma è pure la vitale necessità di subordinare la potenza al destino.

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