Nel corso di una lezione tenuta nel novembre 1990 e dedicata alla storiografia del gruppo di Les Annales, Renzo De Felice presentò François Furet (1927-1997) come «simbolo» della crisi di questa scuola storiografica finita, a suo parere, nella deriva di una sterile e ripetitiva microstoria. Raccontò di aver conosciuto Furet in occasione di un convegno sull'Olocausto organizzato a Parigi da Raymond Aron e di essere rimasto colpito dalla sua vivacità intellettuale e dal fatto che le sue osservazioni erano tanto stimolanti da essere al centro della discussione. Aggiunse che, di persona, lo storico francese era «uomo antipaticissimo» anche se, aggiunse, «veramente di antipatici di questo genere ce ne vorrebbero molti».
All'epoca Furet non aveva ancora pubblicato Il passato di un'illusione, che sarebbe diventato per il De Felice degli ultimi anni una sorta di livre de chevet e un punto di riferimento obbligato. Mi sono sempre chiesto, anche alla luce dei rapporti amichevoli che si stabilirono in seguito con lo studioso francese, come mai De Felice avesse ricavato, da quell'incontro occasionale, l'immagine di un Furet «uomo antipaticissimo». Per quel che posso testimoniare, l'impressione che io ne ebbi quando mi capitò, anni più tardi, di conoscerlo e intervistarlo oltre che di coinvolgerlo in qualche iniziativa, fu ben diversa: quella di un uomo tutt'altro che antipatico, sportivo e spesso informale nell'abbigliamento, dotato di un qual certo humour, riservato, per nulla accademico, gentile e disponibile, con uno sguardo percorso da una vena di malinconia.
Mi ha colpito, a conferma della mia impressione, il fatto che la prima e importante biografia intellettuale di Furet, scritta da Christophe Prochasson sulla base delle carte dello studioso affidate dalla vedova all'Institut Raymond Aron, abbia come titolo Les chemins de la mélancolie (Stock, pagg. 568, euro 24), quasi a indicare nella malinconia la cifra interpretativa di un percorso intellettuale e politico, sofferto e problematico, fatto di illusioni e disillusioni: ma un percorso, tutto sommato, assai meno contorto e più lineare di quanto non faccia pensare la sua antica (e troppo spesso ricordata) appartenenza al partito comunista francese. Questa, in realtà, durò relativamente poco, perché Furet (che era nato nel 1927 a Parigi da una famiglia della buona borghesia francese) si iscrisse al partito comunista nel 1949 ma ne uscì, non molti anni dopo, nel 1956, nemmeno trentenne, all'indomani dell'invasione sovietica dell'Ungheria. Pur gravitando nell'orbita socialista, in fondo egli andava maturando, anche grazie agli studi sulla rivoluzione francese cui aveva cominciato a dedicarsi proprio allora, una visione profondamente liberale. Se c'è un appunto da fare al bel libro di Prochasson, questo riguarda il tentativo di far apparire Furet in qualche misura sempre legato all'orizzonte intellettuale della gauche francese.
Gli studi di Furet sulla rivoluzione rappresentano, nel loro insieme, il punto di arrivo di un approccio «liberale» a quell'evento e si collocano lungo la linea che da Alexis de Tocqueville giunge fino ad Alfred Cobban. Dal volume di sintesi, La Rivoluzione francese (1965), scritto insieme a Denis Richet, al ripensamento interpretativo globale contenuto in Penser la Révolution Française (1968) fino all'ampio studio su La Révolution 1770-1880 dedicato al «secolo della rivoluzione» e al Dizionario critico della Rivoluzione francese (1988) da lui diretto insieme a Mona Ozouf, egli ha distrutto le certezze della storiografia marxista e di quella neo-giacobina. La rivoluzione fu, per Furet, non un fenomeno da assumere in blocco, tesi cara alla vulgata marxista, ma piuttosto un succedersi, sovrapporsi e scontrarsi di più rivoluzioni, diverse per finalità, per estrazione sociale dei protagonisti, per metodi da questi adottati. Fu, anche, un evento le cui radici affondano lontano nel tempo e che va collocato nel contesto europeo e nel lungo periodo, più esattamente all'interno di quella spinta liberale che si articolò, fin oltre la metà del secolo XIX e rispetto alla quale il periodo del Terrore appare come uno slittamento.
Tocqueville, ma anche altri studiosi come Augustin Cochin, che illustrò la «meccanica della rivoluzione», e Madame de Stael sono sullo sfondo della «lettura liberale» della Grande Rivoluzione da parte di Furet che la considera «il più grande avvenimento universale della nostra storia» e le riconosce, comunque, il ruolo di specifico creatore della discontinuità storica. Le «note di lettura» di Furet - cioè gli appunti scritti per riassumere o chiosare i testi classici e che Prochasson ha avuto la possibilità di consultare - ben lo confermano.
Accanto a queste frequentazioni intellettuali e letterarie, un peso notevole, per l'evoluzione anche politica di Furet, ebbe il suo rapporto di amicizia, oltre che di consonanza ideale, con uno dei maestri del pensiero liberale contemporaneo, Raymond Aron. L'ultima opera di Furet, Le Passé d'une illusion (1995), rappresenta, sotto questo profilo, il punto di arrivo di un lungo itinerario storiografico: dalla rivoluzione francese a quella comunista e poi, oltre, a quelle del nazionalsocialismo e del fascismo per non dire di tutte le illusioni che, frutto dell'«universale fascino dell'Ottobre», hanno finito per alimentare la fiamma dell'utopia, anche sotto specie di «socialismo dal volto umano» o di «eurocomunismo». Al tempo stesso, però, Le Passé d'une illusion costituisce la conclusione del personale viaggio dell'autore verso la scoperta della libertà, intellettuale e politica, messa in pericolo dall'egemonia di un'ambigua «cultura antifascista di massa» che propone una «visione lineare della storia contemporanea» destinata a salvare dal disastro l'ideologia comunista e l'illusione rivoluzionaria all'insegna del motto: «chi critica Stalin sta con Hitler».
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