Cultura e Spettacoli

Stiamo combattendo una nuova Guerra fredda

Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, la prefazione di Sergio Romano al libro Ritorno al futuro. La crisi dell’Europa dopo la Guerra Fredda di John J. Mearsheimer, curato da Roberto Vivaldelli e pubblicato dalla casa editrice La Vela

Stiamo combattendo una nuova Guerra fredda

Nel testo originale di Back to the Future Mearsheimer aveva previsto che il contemporaneo ritiro dall’Europa delle forze americane e sovietiche, dopo la fine della Guerra Fredda, avrebbe avuto per effetto un’Europa instabile. Nella sua nuova prefazione riconosce che la previsione non si è avverata e che l’Europa ha goduto, tutto sommato, di una complessiva stabilità, ma aggiunge che il ritiro delle truppe americane non ha avuto luogo e che sono rimaste in Europa perché vi furono trattenute dai membri europei dell’Alleanza.

Vi fu effettivamente un momento in cui politici, studiosi e giornalisti americani si chiesero se la fine della Guerra Fredda non giustificasse anche la fine di una organizzazione che era nata per fare la guerra a un potenziale nemico. Ma gli Alleati europei, come ricorda Mearsheimer, non sembravano interessati alla partenza delle truppe americane, e al vertice atlantico di Pratica di Mare, nel luglio del 2002, fu addirittura deciso che Nato e Russia avrebbero formato una sorta di partenariato. In quel momento pensai che la Nato avrebbe smesso di essere l’organizzazione militare delle democrazie occidentali e sarebbe diventata l’organizzazione per la sicurezza collettiva di una grande zona euro-asiatica dall’Atlantico agli Urali. Commisi anch’io un errore di previsione. Allora non avevo capito che gli Stati Uniti credevano di aver vinto la Guerra Fredda e ritenevano di poter comportarsi da vincitori. Esisteva certamente uno sconfitto (il comunismo), ma la Russia, dopo aver superato una minacciosa crisi istituzionale, avrebbe aspirato a riconquistare almeno in parte lo spazio e il ruolo che aveva avuto quando era “Unione delle Repubbliche Socialiste e Sovietiche”: un’aspirazione che mi sembrò naturale e legittima. Tuttavia, l’operazione militare contro la Jugoslavia, nella primavera del 1999, dimostrò che gli Stati Uniti non avrebbero rinunciato a intervenire militarmente nelle vicende europee senza tener conto degli interessi russi in Serbia e nel Kosovo.

La partecipazione alle operazioni di alcuni paesi europei, tra cui l’Italia, e il fatto che i bersagli di aerei e missili fossero scelti ogni giorno dal comitato militare della Nato, sembrò dimostrare che gli Stati Uniti erano disposti ad accettare una gestione collegiale del conflitto. Ma fu presto evidente che ai militari americani un tale “condominio” militare non piaceva, e che non sarebbe stato ripetuto in altre circostanze. Da quel momento gli Stati Uniti preferirono agire da soli, eventualmente con il sostegno di una “coalizione di volonterosi”, come in Afghanistan e Iraq. La Nato continuò a esistere, ma con una diversa missione: quella di accogliere tra le sue braccia i paesi che avevano fatto parte del Patto di Varsavia. Nel 1999, dopo la fine della guerra del Kosovo, furono ammessi a far parte dell’organizzazione la Repubblica Ceca, la Polonia e l’Ungheria; nel 2004 fu il turno di Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia; nel 2009 di Albania e Croazia; nel 2017 del Montenegro. Nell’aprile del 2008, durante il vertice della Nato a Bucarest, George W. Bush propose che l’Alleanza venisse estesa a Georgia e Ucraina, ma la cancelliera Merkel suggerì, saggiamente, una pausa di riflessione.

A chi osservava che la continua estensione di un’organizzazione militare, protagonista della Guerra Fredda, avrebbe suscitato, prima o dopo, le reazioni della Russia, gli americani rispondevano che l’appartenenza alla Nato avrebbe stabilizzato gli Stati emersi dalla dissoluzione del blocco sovietico. La nascita di un’associazione come quella concepita dal vertice di Pratica di Mare avrebbe forse avuto questo risultato. Ma la Nato è un’organizzazione militare, con basi americane, un comandante supremo americano, forze integrate. È una macchina concepita per fare la guerra, che si prepara al conflitto con esercitazioni periodiche da cui si può facilmente desumere quale sia il suo nemico preferito. Contemporaneamente, un segretario di Stato americano, durante la presidenza di Bill Clinton, a un incontro con la stampa aveva dichiarato che gli Stati Uniti sono una potenza indispensabile: “Se vi sono occasioni in cui dobbiamo ricorrere all’uso della forza, questo si deve al fatto che noi siamo l’America, la nazione indispensabile. Siamo più alti degli altri Paesi, vediamo più lontano nel futuro e vediamo il pericolo che minaccia tutti noi”.

L’ampliamento della Nato ha avuto l’effetto di mettere in moto una macchina diabolica. Gli ex Stati satelliti dell’Urss sono consapevoli della loro vulnerabilità, diffidano, per ragioni storiche, delle maggiori potenze europee, credono di avere negli Stati Uniti il migliore dei protettori possibili e hanno un’irresistibile tendenza a fare della Russia il migliore dei nemici possibili. L’America accetta il ruolo del protettore perché le garantisce il diritto di considerarsi indispensabile e le permette di liberarsi dai vincoli di reciproca auto-disciplina che aveva pattuito con l’urss durante la Guerra Fredda: il trattato abm sui missili anti-balistici (denunciato nel 2002), e quello firmato da Reagan e Gorbaciov sull’installazione dei missili intermedi nel territorio europeo (denunciato nel 2018). La Russia si sente assediata (una vecchia sindrome di cui fatica a liberarsi), ma non ha torto quando constata che la Nato ha incorporato le repubbliche del Baltico e sembra decisa a fare altrettanto, alla prima occasione, con l’Ucraina e la Georgia.

Se stiamo combattendo una nuova Guerra Fredda, le responsabilità sono, come sempre, numerose; ma quelle della Nato mi sembrano particolarmente evidenti.

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